Ritorno ad Aristotele /3. La biologia dell'anima
Mi rendo conto che il tono dell'ultimo contributo era piuttosto teorico, e quindi di lettura impervia e noiosa, anche se conteneva una serie di elementi necessari a sostegno di quello che vorrei dire. E mi rendo anche conto che queste mie sono riflessioni piuttosto personali, che finiscono per lasciare poco spazio ad una critica. Però mi farebbe lo stesso molto piacere, se almeno qualcuno degli amici che hanno così attivamente partecipato allo scambio di idee su mythos e logos, potessero venire anche qui a donare i loro preziosi contributi, cercando di trasformare il quasi-monologo della Bottega in un più animato dialogo. (Per quanto, la ristretta compagnia che mi ha seguito fin qui abbia già regalato penetranti ed appropriati interventi.)
Uno degli obiettivi di questa mia riflessione, per quanto disordinata e incompleta, è di proporre una tesi, neanche troppo innovativa a ben vedere, secondo cui l'attività scientifica è il necessario prodotto del cervello umano, e più precisamente della mente.
L'attività in questione è connessa all'impiego della matematica, la quale non è una scienza, ma è una delle forme di linguaggio proprie del cervello umano, cioè puro prodotto della mente e non-esistente al di fuori di essa, al pari del linguaggio verbale o musicale (più adatti ad altre attività umane che non all'elaborazione scientifica).
L'attività scientifica consiste nella trasformazione ed organizzazione di qualsiasi sensazione attraversi il confine esterno-interno del nostro corpo vivente. Non abbiamo alternative in questo. Ogni volta che riceviamo uno stimolo visuale o uditivo, ogni volta che attraversiamo la strada, ogni volta che confrontiamo fra loro due forme geometriche cercando una sfera in una mela, ogni volta che proviamo l'impulso di dare un bacio ad un volto amato, si mettono in moto all'interno dell'involucro vitale catene di reazioni chimiche, governate dalla risposta del cervello a stimoli esterni che hanno varcato la frontiera. Sia gli stimoli che le risposte vengono trattati dalla mente secondo un codice che riflette necessariamente la struttura elaborante della mente stessa. Oltre a configurarsi come processi "usa-e-getta", alcune di queste catene stimolo-risposta (anche comprendenti più livelli di "andata e ritorno" fra l'interno e l'esterno) possono venire formalizzate dalla mente, per finire immagazzinate nella memoria. Nel sistema dell'organizzazione percettiva il linguaggio mentale di elezione in cui questo avviene è la matematica, mentre per altri tipi di processi può essere, ad esempio, il linguaggio verbale o musicale. In ogni caso, si tratta di linguaggi scolpiti nella struttura del cervello umano. La musica, la parola, le scienze, esistono solo dentro la nostra mente.
Spero di riuscire a chiarire questo blocco di concetti in maniera più approfondita nei prossimi interventi. In questo post vorrei però insistere sul contributo di ispirazione che il pensiero aristotelico fornisce alla mia tesi. In particolare, sul fatto che le idee scientifiche di Aristotele - che nel mondo moderno, sia dentro che fuori l'ambiente accademico, sono state considerate un relitto di un modo primitivo e addirittura "infantile" di fare scienza - vadano invece considerate come il prodotto di una indagine estremamente raffinata, non tanto e non solo sugli oggetti della scienza in sé, quanto sul rapporto fra essere umano e mondo circostante. Mostrando che la scienza non è altro che questo, ossia un'altra forma di espressione poetica.
Questa accezione del pensiero aristotelico è quella che stimola molte delle mie riflessioni, ovvero che non si possa dare lo studio di una realtà esterna indipendente dalla attività (volontà?) del soggetto che la osserva. Che questo continuo gioco di proiezione del mondo esterno in ειδος, immagini mentali interne, attraversando i confini del corpo e disegnando nuovi confini nella geometria della mente, e che da queste immagini, con un procedimento matematico, la mente astrae forme organizzate, sia l'unica forma di accesso al mondo esterno che ci è concessa. Si riparte dal tomistico nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, per degli esiti che sorpassano l'empirismo (schivando a piedi pari le tentazioni immaterialiste di Berkeley) ed arrivare alle moderne neuroscienze. La nostra visione della realtà è il risultato della percezione e dell'organizzazione strutturale della nostra mente. In breve, siamo costretti a vedere il mondo sempre da dietro i nostri occhi. Non potremo mai uscire dal nostro corpo verso una realtà oggettiva. Non potremo mai introdurre il nostro cervello dietro gli occhi di qualcun altro, per avere la sua stessa percezione della sua propria realtà. E questo indipendentemente dal valore che si vuole assegnare alla realtà, materiale o ideale.
Aristotele nasce a Stagira, nel nord della Grecia, figlio di Nicomaco che era medico di corte della famiglia reale di Macedonia. Per questo i suoi primi studi furono in medicina, finché nel 367, diciassettenne, fu mandato ad Atene per studiare filosofia con Platone. Rimase per una ventina d'anni nell'Accademia ma, sebbene fosse l'allievo probabilmente più brillante di tutti, aveva nel tempo sviluppato una precisa opposizione a molti degli insegnamenti di Platone, tanto che non fu nominato alla testa dell'Accademia quando Platone morì. Per questo Aristotele lasciò Atene e viaggiò per circa dieci anni, principalmente in Asia Minore. Possiamo supporre che i suoi studi di biologia datino a questo periodo. Nel 338 tornò in Macedonia, per diventare istitutore di Alessandro Magno. Quando il suo giovane discepolo conquistò Atene, Aristotele vi tornò e creò la sua propria scuola, nota come Liceo. Aristotele rimase ad Atene fino a poco dopo la morte di Alessandro quando, in seguito alle sollevazioni popolari contro i macedoni invasori, la sua posizione sociale divenne sempre più critica fino a rischiare la pena capitale. Fu così costretto a ritirarsi nella penisola di Eubea, lontano da Atene, dove infine morì nel 322.
E' difficile sintetizzare in breve il contributo di Aristotele alle scienze dell'antichità, ma credo che per alcuni lettori della Bottega risulterà sorprendente scoprire quanto e con quanta competenza e profondità Aristotele fosse uno scienziato empirico, prima ancora che un filosofo. E' una delle grandi ironie della storia che gli scritti e le idee di Aristotele, basati il larghissima parte sulla osservazione e sulla manipolazione diretta, vennero usati nel Medio Evo e oltre proprio per ostacolare e impedire lo sviluppo formale delle scienze, dopo che la Scolastica aveva amalgamato il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana.
Aristotele, primo degli empiristi, classificò gli oggetti fisici che secondo lui costituivano la realtà accessibile con la sola esperienza. Tutti gli oggetti, compresi gli organismi (è lui ad aver inventato sia la parola, sia il concetto di organismo come insieme di elementi aggregati per svolgere una funzione ben definita) sono composti di potenza e atto, materia e forma. Un blocco di marmo ha in sé la potenza di assumere qualunque forma lo scultore gli dia; un seme o un embrione ha la potenza di crescere nella forma animale o vegetale finale. Nelle creature viventi egli identificava la forma con l'anima: le piante hanno un'anima di genere inferiore, gli animali di genere superiore e possono "sentire", gli umani sono i soli ad avere anima razionale. Sottolineo ancora come, in termini moderni, la migliore identificazione dell'anima aristotelica sia con la definizione materialista-funzionalista della mente che si dà in neurofisiologia ("non è possibile un cambiamento di stato mentale senza un cambiamento di stato cerebrale"), anche se le piante rientrano solo parzialmente in questa descrizione, limitatamente alla sfera sensibile. Va infatti ricordato che secondo Aristotele l'anima è una parte sensibile (ψυκη) e una parte intellettiva (νους). (Una identificazione dell'anima, ad esempio, con il codice genetico o DNA sarebbe concettualmente possibile, ma la distanza fra il genotipo e il fenotipo di un individuo è troppo vasta per renderla praticamente plausibile.)
Gli animali venivano da lui classificati secondo la loro forma di vita (la moderna tassonomia), le loro azioni (etologia) e, più fondamentalmente, in base alle loro parti (anatomia). Sebbene il lavoro di Aristotele in zoologia non sia privo di errori rispetto alle conoscenze moderne, la sua fu la più grande sintesi del suo tempo e rimase l'autorità nel campo per secoli dopo la sua morte. Le sue osservazioni sull'anatomia del polpo, della seppia, dei crostacei e di altri invertebrati marini sono eccezionalmente accurate, e poterono essere state formulate solo a valle di esperienze di dissezione anatomica. Egli descrisse lo sviluppo embrionale dei polli, distinse balene e delfini dai pesci, descrisse lo stomaco compartimentato dei ruminanti e l'organizzazione sociale delle api, notò che alcuni pescecani mettono al mondo la prole già viva. I suoi libri sugli animali sono pieni di accurate osservazioni, alcune delle quali vennero confermate sperimentalmente solo molti secoli più tardi.
La sua classificazione raggruppa in generi (termine che ha un senso molto più ampio di quello moderno) gli animali con caratteri simili, e distingue diverse specie all'interno di ciascun genere. Divide gli animali in due tipi, quelli con sangue e quelli senza sangue (almeno basandosi sulla presenza di sangue rosso), una distinzione che corrisponde molto da vicino a quella moderna fra vertebrati e invertebrati. Gli animali con il sangue (vertebrati) erano classificati in cinque generi: quadrupedi vivipari (cioè i mammiferi), uccelli, quadrupedi ovipari (rettili e anfibi), pesci, balene (che egli non comprese fra i mammiferi, mentre vi incluse invece i delfini nei quali scoperse la presenza della placenta: è notevole che su questo punto Aristotele fu screditato dai suoi successori, e i delfini vennero correttamente inclusi fra i mammiferi solo dalla scienza moderna, oltre duemila anni dopo). Gli animali senza sangue erano invece classificati in cefalopodi, crostacei, insetti (genere che includeva anche ragni, scorpioni e anellidi), animali con la conchiglia (compresi molluschi ed echinodermi), e zoofiti o animali-piante, come gli cnidari che agli occhi di Aristotele somigliavano a piante.
L'amore per la classificazione ed il raggruppamento in generi simili lo condusse inevitabilmente a formulare una gerarchia concatenata del cambiamento progressivo nelle forme delle specie animali, una sorta di embrione di teoria evoluzionista in cui era affiancato anche da altri pensatori dell'epoca. Peraltro, la fantasia e l'intuito lo portarono in alcuni casi in dei vicoli ciechi, come l'aver attribuito al cuore la sede delle funzioni vitali considerando il cervello solo come un organo per raffreddare il sangue. Suppongo che per capire almeno qualitativamente la funzionalità cerebrale, egli avrebbe dovuto poter effettuare esperimenti di dissezione su animali vivi.
Come si dirà più avanti, parlando della fisica, Aristotele non fu uno sperimentatore nel senso proprio del termine, quanto piuttosto un acutissimo osservatore della natura. Infatti, egli non mise mai in opera un vero e proprio apparato sperimentale destinato a provare o disprovare un'ipotesi, ma spinse la sua osservazione quanto più nel profondo gli fu possibile.
Il pensiero aristotelico sulle scienze della Terra si ritrova nel suo trattato sulla Meteorologia, un termine anche in questo caso assai più ampio del significato moderno, comprendente "tutti i fenomeni comuni ad aria ed acqua, e i generi e le parti della terra, e i fenomeni delle sue parti". In questo scritto egli discute la natura della terra emersa e degli oceani, e descrive fra l'altro il ciclo idrogeologico in termini eccezionalmente moderni: "Perché il sole, nel suo movimento, mette in moto processi di cambiamento, e divenire, e decadimento, e per la sua azione l'acqua dolce e pura ogni giorno viene portata in aria e dissolta in vapore, e sale così nelle regioni più alte dove si condensa nuovamente per il freddo, e in questo modo ritorna sulla terra". Nello stesso testo egli discute di venti e terremoti (che credeva causati da venti sotterranei), tuoni, fulmini, arcobaleni, meteore, comete e la Via Lattea (che raggruppa tutti sotto la categoria dei fenomeni atmosferici).
Inoltre, la sua visione della storia del pianeta contiene alcune idee parimenti di grande modernità: "Le varie parti della terra non sono sempre state asciutte o secche, ma cambiano, al mutare dei fiumi che scorrono e si prosciugano. E allo stesso modo la relazione fra terra e mare cambia, e laddove c'era terraferma arriva il mare, e dove adesso c'è il mare un giorno vi sarà terraferma. Ma dobbiamo supporre che questi cambiamenti seguano un certo ordine e un certo ciclo. Il principio e la causa di questi mutamenti è che lo stesso interno della terra si sviluppa e decade, come il corpo delle piante e degli animali […] Ma l'intero processo vitale della terra accade gradualmente e in periodi di tempo cosi immensi al confronto della durata della nostra vita, che tali cambiamenti non possono essere osservati e, prima che il loro decorso possa essere documentato dall'inizio alla fine, intere nazioni periscono e sono distrutte."
L'osservazione di Aristotele secondo cui la natura circolare dei moti celesti è prova della limitatezza spaziale dell'universo è molto più profonda di quanto non possa apparire. Essa contiene infatti l'intuizione di un principio di conservazione (quello che in termini moderni chiamiamo momento angolare dell'universo) che suona di fisica molto moderna. Bisogna fare attenzione, nella discussione del pensiero aristotelico, a mantenere distinte le sue affermazioni basate su almeno un elemento osservativo, da quelle basate sulla pura speculazione. E anche fra le osservazioni, sue e dei suoi contemporanei, bisogna tenere conto delle limitate capacità sperimentali dell'epoca, ad esempio l'incapacità di misurare con sufficiente accuratezza gli intervalli di tempo (bisognerà aspettare il Settecento e Christian Huygens per un salto di qualità). Ad esempio, uno degli elementi addotti da Aristotele per provare l'eternità dell'universo era la costanza della velocità del moto delle stelle (nella sua formulazione, del moto dell'etere). Oggi sappiamo che l'universo nella sua globalità sta rallentando, e questa è una delle importanti prove a supporto della teoria del Big Bang, ma tale rallentamento non è misurabile che con strumenti ecezionalmente raffinati.
La credenza aristotelica in un universo senza inizio e senza fine lo porrebbe di diritto fra i precursori della teoria dell'universo stazionario, (ri)formulata negli anni '30 dai cosmologi inglesi Hermann Bondi e Roger Hoyle, e sconfessata alla fine degli anni '60 dalla scoperta della radiazione cosmica di fondo, presunto residuo del Big Bang. O forse meglio, della teoria dell'universo in equilibrio di Einstein, la soluzione delle equazioni relativistiche con costante cosmologica non nulla che venne messa sostanzialmente in crisi dall'evidenza dell'espansione dell'universo (Einstein dichiarò in proposito che questa fu la sua più grave svista). Questa visione, pur discutibile ma senz'altro originale e moderna, spinse però Aristotele ad una interpretazione necessariamente ciclica dei fenomeni, per garantire la condizione di stazionarietà come realtà immutabile. Mentre questo era necessario per Aristotele, da una parte per evitare i paradossi logici della scuola eleatica, e dall'altra per uniformarsi alla sua visione strettamente teleologica della natura, tale richiesta agli occhi moderni non è obbligatoria per garantire una possibile soluzione stazionaria o di equilibrio per un modello di universo basato sulla relatività generale. Per noi oggi è plausibile un universo "aperto" e un tempo senza fine, pur se in continua evoluzione e cambiamento (si potrebbe leggere ad esempio il bell'articolo divulgativo di Freeman J. Dyson "Time without end: physics and biology in an open universe", in Reviews of Modern Physics del 1979). Sebbene la differenza fondamentale fra aristotelismo e le moderne teorie dell'universo, in espansione e "inflazionario", sia la presenza di una singolarità iniziale, o Big Bang, a partire alla quale emerge il tessuto dello spazio-tempo relativistico, credo di aver ragione a sospettare che se Aristotele fosse vissuto oggi avrebbe forse apprezzato una tale possibilità, eternità nel mutamento, poiché l'assenza di un limite finale al tempo fa sì che tutte le possibilità siano in realtà compresenti fra potenza e atto, e quindi immutabili, anche se noi possiamo percepirle come in apparente, continuo mutamento.
Personalmente, gli aspetti del pensiero scientifico di Aristotele che mi lasciano più freddo sono proprio quelli che dovrebbero apparire più falsamente moderni, negli attuali tempi di magra del riduzionismo in favore di una variegata pattuglia di approcci olistici. Si, la teoria dell'organicità dell'universo, l'identificazione dualistica di microcosmo e macrocosmo, che sembrano tanto prossimi alle visioni parascientifiche di un certo ecologismo che arriva fino a Bateson & C. Ma delle conclusioni a tratti paradossali della fisica aristotelica, del non-ruolo della matematica nel suo pensiero (importanza delle assenze, a volte), e della sua visione finalistica dell'universo come organismo vivente (ci risiamo con l'Ipotesi Gaia degli ecologisti alla Ray Lovelock?) parlerò una prossima volta…
Uno degli obiettivi di questa mia riflessione, per quanto disordinata e incompleta, è di proporre una tesi, neanche troppo innovativa a ben vedere, secondo cui l'attività scientifica è il necessario prodotto del cervello umano, e più precisamente della mente.
L'attività in questione è connessa all'impiego della matematica, la quale non è una scienza, ma è una delle forme di linguaggio proprie del cervello umano, cioè puro prodotto della mente e non-esistente al di fuori di essa, al pari del linguaggio verbale o musicale (più adatti ad altre attività umane che non all'elaborazione scientifica).
L'attività scientifica consiste nella trasformazione ed organizzazione di qualsiasi sensazione attraversi il confine esterno-interno del nostro corpo vivente. Non abbiamo alternative in questo. Ogni volta che riceviamo uno stimolo visuale o uditivo, ogni volta che attraversiamo la strada, ogni volta che confrontiamo fra loro due forme geometriche cercando una sfera in una mela, ogni volta che proviamo l'impulso di dare un bacio ad un volto amato, si mettono in moto all'interno dell'involucro vitale catene di reazioni chimiche, governate dalla risposta del cervello a stimoli esterni che hanno varcato la frontiera. Sia gli stimoli che le risposte vengono trattati dalla mente secondo un codice che riflette necessariamente la struttura elaborante della mente stessa. Oltre a configurarsi come processi "usa-e-getta", alcune di queste catene stimolo-risposta (anche comprendenti più livelli di "andata e ritorno" fra l'interno e l'esterno) possono venire formalizzate dalla mente, per finire immagazzinate nella memoria. Nel sistema dell'organizzazione percettiva il linguaggio mentale di elezione in cui questo avviene è la matematica, mentre per altri tipi di processi può essere, ad esempio, il linguaggio verbale o musicale. In ogni caso, si tratta di linguaggi scolpiti nella struttura del cervello umano. La musica, la parola, le scienze, esistono solo dentro la nostra mente.
Spero di riuscire a chiarire questo blocco di concetti in maniera più approfondita nei prossimi interventi. In questo post vorrei però insistere sul contributo di ispirazione che il pensiero aristotelico fornisce alla mia tesi. In particolare, sul fatto che le idee scientifiche di Aristotele - che nel mondo moderno, sia dentro che fuori l'ambiente accademico, sono state considerate un relitto di un modo primitivo e addirittura "infantile" di fare scienza - vadano invece considerate come il prodotto di una indagine estremamente raffinata, non tanto e non solo sugli oggetti della scienza in sé, quanto sul rapporto fra essere umano e mondo circostante. Mostrando che la scienza non è altro che questo, ossia un'altra forma di espressione poetica.
Questa accezione del pensiero aristotelico è quella che stimola molte delle mie riflessioni, ovvero che non si possa dare lo studio di una realtà esterna indipendente dalla attività (volontà?) del soggetto che la osserva. Che questo continuo gioco di proiezione del mondo esterno in ειδος, immagini mentali interne, attraversando i confini del corpo e disegnando nuovi confini nella geometria della mente, e che da queste immagini, con un procedimento matematico, la mente astrae forme organizzate, sia l'unica forma di accesso al mondo esterno che ci è concessa. Si riparte dal tomistico nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, per degli esiti che sorpassano l'empirismo (schivando a piedi pari le tentazioni immaterialiste di Berkeley) ed arrivare alle moderne neuroscienze. La nostra visione della realtà è il risultato della percezione e dell'organizzazione strutturale della nostra mente. In breve, siamo costretti a vedere il mondo sempre da dietro i nostri occhi. Non potremo mai uscire dal nostro corpo verso una realtà oggettiva. Non potremo mai introdurre il nostro cervello dietro gli occhi di qualcun altro, per avere la sua stessa percezione della sua propria realtà. E questo indipendentemente dal valore che si vuole assegnare alla realtà, materiale o ideale.
Aristotele nasce a Stagira, nel nord della Grecia, figlio di Nicomaco che era medico di corte della famiglia reale di Macedonia. Per questo i suoi primi studi furono in medicina, finché nel 367, diciassettenne, fu mandato ad Atene per studiare filosofia con Platone. Rimase per una ventina d'anni nell'Accademia ma, sebbene fosse l'allievo probabilmente più brillante di tutti, aveva nel tempo sviluppato una precisa opposizione a molti degli insegnamenti di Platone, tanto che non fu nominato alla testa dell'Accademia quando Platone morì. Per questo Aristotele lasciò Atene e viaggiò per circa dieci anni, principalmente in Asia Minore. Possiamo supporre che i suoi studi di biologia datino a questo periodo. Nel 338 tornò in Macedonia, per diventare istitutore di Alessandro Magno. Quando il suo giovane discepolo conquistò Atene, Aristotele vi tornò e creò la sua propria scuola, nota come Liceo. Aristotele rimase ad Atene fino a poco dopo la morte di Alessandro quando, in seguito alle sollevazioni popolari contro i macedoni invasori, la sua posizione sociale divenne sempre più critica fino a rischiare la pena capitale. Fu così costretto a ritirarsi nella penisola di Eubea, lontano da Atene, dove infine morì nel 322.
E' difficile sintetizzare in breve il contributo di Aristotele alle scienze dell'antichità, ma credo che per alcuni lettori della Bottega risulterà sorprendente scoprire quanto e con quanta competenza e profondità Aristotele fosse uno scienziato empirico, prima ancora che un filosofo. E' una delle grandi ironie della storia che gli scritti e le idee di Aristotele, basati il larghissima parte sulla osservazione e sulla manipolazione diretta, vennero usati nel Medio Evo e oltre proprio per ostacolare e impedire lo sviluppo formale delle scienze, dopo che la Scolastica aveva amalgamato il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana.
Aristotele, primo degli empiristi, classificò gli oggetti fisici che secondo lui costituivano la realtà accessibile con la sola esperienza. Tutti gli oggetti, compresi gli organismi (è lui ad aver inventato sia la parola, sia il concetto di organismo come insieme di elementi aggregati per svolgere una funzione ben definita) sono composti di potenza e atto, materia e forma. Un blocco di marmo ha in sé la potenza di assumere qualunque forma lo scultore gli dia; un seme o un embrione ha la potenza di crescere nella forma animale o vegetale finale. Nelle creature viventi egli identificava la forma con l'anima: le piante hanno un'anima di genere inferiore, gli animali di genere superiore e possono "sentire", gli umani sono i soli ad avere anima razionale. Sottolineo ancora come, in termini moderni, la migliore identificazione dell'anima aristotelica sia con la definizione materialista-funzionalista della mente che si dà in neurofisiologia ("non è possibile un cambiamento di stato mentale senza un cambiamento di stato cerebrale"), anche se le piante rientrano solo parzialmente in questa descrizione, limitatamente alla sfera sensibile. Va infatti ricordato che secondo Aristotele l'anima è una parte sensibile (ψυκη) e una parte intellettiva (νους). (Una identificazione dell'anima, ad esempio, con il codice genetico o DNA sarebbe concettualmente possibile, ma la distanza fra il genotipo e il fenotipo di un individuo è troppo vasta per renderla praticamente plausibile.)
Gli animali venivano da lui classificati secondo la loro forma di vita (la moderna tassonomia), le loro azioni (etologia) e, più fondamentalmente, in base alle loro parti (anatomia). Sebbene il lavoro di Aristotele in zoologia non sia privo di errori rispetto alle conoscenze moderne, la sua fu la più grande sintesi del suo tempo e rimase l'autorità nel campo per secoli dopo la sua morte. Le sue osservazioni sull'anatomia del polpo, della seppia, dei crostacei e di altri invertebrati marini sono eccezionalmente accurate, e poterono essere state formulate solo a valle di esperienze di dissezione anatomica. Egli descrisse lo sviluppo embrionale dei polli, distinse balene e delfini dai pesci, descrisse lo stomaco compartimentato dei ruminanti e l'organizzazione sociale delle api, notò che alcuni pescecani mettono al mondo la prole già viva. I suoi libri sugli animali sono pieni di accurate osservazioni, alcune delle quali vennero confermate sperimentalmente solo molti secoli più tardi.
La sua classificazione raggruppa in generi (termine che ha un senso molto più ampio di quello moderno) gli animali con caratteri simili, e distingue diverse specie all'interno di ciascun genere. Divide gli animali in due tipi, quelli con sangue e quelli senza sangue (almeno basandosi sulla presenza di sangue rosso), una distinzione che corrisponde molto da vicino a quella moderna fra vertebrati e invertebrati. Gli animali con il sangue (vertebrati) erano classificati in cinque generi: quadrupedi vivipari (cioè i mammiferi), uccelli, quadrupedi ovipari (rettili e anfibi), pesci, balene (che egli non comprese fra i mammiferi, mentre vi incluse invece i delfini nei quali scoperse la presenza della placenta: è notevole che su questo punto Aristotele fu screditato dai suoi successori, e i delfini vennero correttamente inclusi fra i mammiferi solo dalla scienza moderna, oltre duemila anni dopo). Gli animali senza sangue erano invece classificati in cefalopodi, crostacei, insetti (genere che includeva anche ragni, scorpioni e anellidi), animali con la conchiglia (compresi molluschi ed echinodermi), e zoofiti o animali-piante, come gli cnidari che agli occhi di Aristotele somigliavano a piante.
L'amore per la classificazione ed il raggruppamento in generi simili lo condusse inevitabilmente a formulare una gerarchia concatenata del cambiamento progressivo nelle forme delle specie animali, una sorta di embrione di teoria evoluzionista in cui era affiancato anche da altri pensatori dell'epoca. Peraltro, la fantasia e l'intuito lo portarono in alcuni casi in dei vicoli ciechi, come l'aver attribuito al cuore la sede delle funzioni vitali considerando il cervello solo come un organo per raffreddare il sangue. Suppongo che per capire almeno qualitativamente la funzionalità cerebrale, egli avrebbe dovuto poter effettuare esperimenti di dissezione su animali vivi.
Come si dirà più avanti, parlando della fisica, Aristotele non fu uno sperimentatore nel senso proprio del termine, quanto piuttosto un acutissimo osservatore della natura. Infatti, egli non mise mai in opera un vero e proprio apparato sperimentale destinato a provare o disprovare un'ipotesi, ma spinse la sua osservazione quanto più nel profondo gli fu possibile.
Il pensiero aristotelico sulle scienze della Terra si ritrova nel suo trattato sulla Meteorologia, un termine anche in questo caso assai più ampio del significato moderno, comprendente "tutti i fenomeni comuni ad aria ed acqua, e i generi e le parti della terra, e i fenomeni delle sue parti". In questo scritto egli discute la natura della terra emersa e degli oceani, e descrive fra l'altro il ciclo idrogeologico in termini eccezionalmente moderni: "Perché il sole, nel suo movimento, mette in moto processi di cambiamento, e divenire, e decadimento, e per la sua azione l'acqua dolce e pura ogni giorno viene portata in aria e dissolta in vapore, e sale così nelle regioni più alte dove si condensa nuovamente per il freddo, e in questo modo ritorna sulla terra". Nello stesso testo egli discute di venti e terremoti (che credeva causati da venti sotterranei), tuoni, fulmini, arcobaleni, meteore, comete e la Via Lattea (che raggruppa tutti sotto la categoria dei fenomeni atmosferici).
Inoltre, la sua visione della storia del pianeta contiene alcune idee parimenti di grande modernità: "Le varie parti della terra non sono sempre state asciutte o secche, ma cambiano, al mutare dei fiumi che scorrono e si prosciugano. E allo stesso modo la relazione fra terra e mare cambia, e laddove c'era terraferma arriva il mare, e dove adesso c'è il mare un giorno vi sarà terraferma. Ma dobbiamo supporre che questi cambiamenti seguano un certo ordine e un certo ciclo. Il principio e la causa di questi mutamenti è che lo stesso interno della terra si sviluppa e decade, come il corpo delle piante e degli animali […] Ma l'intero processo vitale della terra accade gradualmente e in periodi di tempo cosi immensi al confronto della durata della nostra vita, che tali cambiamenti non possono essere osservati e, prima che il loro decorso possa essere documentato dall'inizio alla fine, intere nazioni periscono e sono distrutte."
L'osservazione di Aristotele secondo cui la natura circolare dei moti celesti è prova della limitatezza spaziale dell'universo è molto più profonda di quanto non possa apparire. Essa contiene infatti l'intuizione di un principio di conservazione (quello che in termini moderni chiamiamo momento angolare dell'universo) che suona di fisica molto moderna. Bisogna fare attenzione, nella discussione del pensiero aristotelico, a mantenere distinte le sue affermazioni basate su almeno un elemento osservativo, da quelle basate sulla pura speculazione. E anche fra le osservazioni, sue e dei suoi contemporanei, bisogna tenere conto delle limitate capacità sperimentali dell'epoca, ad esempio l'incapacità di misurare con sufficiente accuratezza gli intervalli di tempo (bisognerà aspettare il Settecento e Christian Huygens per un salto di qualità). Ad esempio, uno degli elementi addotti da Aristotele per provare l'eternità dell'universo era la costanza della velocità del moto delle stelle (nella sua formulazione, del moto dell'etere). Oggi sappiamo che l'universo nella sua globalità sta rallentando, e questa è una delle importanti prove a supporto della teoria del Big Bang, ma tale rallentamento non è misurabile che con strumenti ecezionalmente raffinati.
La credenza aristotelica in un universo senza inizio e senza fine lo porrebbe di diritto fra i precursori della teoria dell'universo stazionario, (ri)formulata negli anni '30 dai cosmologi inglesi Hermann Bondi e Roger Hoyle, e sconfessata alla fine degli anni '60 dalla scoperta della radiazione cosmica di fondo, presunto residuo del Big Bang. O forse meglio, della teoria dell'universo in equilibrio di Einstein, la soluzione delle equazioni relativistiche con costante cosmologica non nulla che venne messa sostanzialmente in crisi dall'evidenza dell'espansione dell'universo (Einstein dichiarò in proposito che questa fu la sua più grave svista). Questa visione, pur discutibile ma senz'altro originale e moderna, spinse però Aristotele ad una interpretazione necessariamente ciclica dei fenomeni, per garantire la condizione di stazionarietà come realtà immutabile. Mentre questo era necessario per Aristotele, da una parte per evitare i paradossi logici della scuola eleatica, e dall'altra per uniformarsi alla sua visione strettamente teleologica della natura, tale richiesta agli occhi moderni non è obbligatoria per garantire una possibile soluzione stazionaria o di equilibrio per un modello di universo basato sulla relatività generale. Per noi oggi è plausibile un universo "aperto" e un tempo senza fine, pur se in continua evoluzione e cambiamento (si potrebbe leggere ad esempio il bell'articolo divulgativo di Freeman J. Dyson "Time without end: physics and biology in an open universe", in Reviews of Modern Physics del 1979). Sebbene la differenza fondamentale fra aristotelismo e le moderne teorie dell'universo, in espansione e "inflazionario", sia la presenza di una singolarità iniziale, o Big Bang, a partire alla quale emerge il tessuto dello spazio-tempo relativistico, credo di aver ragione a sospettare che se Aristotele fosse vissuto oggi avrebbe forse apprezzato una tale possibilità, eternità nel mutamento, poiché l'assenza di un limite finale al tempo fa sì che tutte le possibilità siano in realtà compresenti fra potenza e atto, e quindi immutabili, anche se noi possiamo percepirle come in apparente, continuo mutamento.
Personalmente, gli aspetti del pensiero scientifico di Aristotele che mi lasciano più freddo sono proprio quelli che dovrebbero apparire più falsamente moderni, negli attuali tempi di magra del riduzionismo in favore di una variegata pattuglia di approcci olistici. Si, la teoria dell'organicità dell'universo, l'identificazione dualistica di microcosmo e macrocosmo, che sembrano tanto prossimi alle visioni parascientifiche di un certo ecologismo che arriva fino a Bateson & C. Ma delle conclusioni a tratti paradossali della fisica aristotelica, del non-ruolo della matematica nel suo pensiero (importanza delle assenze, a volte), e della sua visione finalistica dell'universo come organismo vivente (ci risiamo con l'Ipotesi Gaia degli ecologisti alla Ray Lovelock?) parlerò una prossima volta…

5 Comments:
pur lavorando sull' Aristotele dell'etica-politica, come sai, un altro Aristotele rispetto al tuo, almeno sul piano dei contenuti, mi sono imbattuta spesso su alcune considerazioni analoghe alle tue; soprattutto condivido la tua osservazione secondo la quale le analisi aristoteliche vadano considerate come "il prodotto di una indagine estremamente raffinata, non tanto e non solo sugli oggetti della scienza in sé, quanto sul rapporto fra essere umano e mondo circostante". Mutando contenuto, l'osservazione, applicata all'indagine etica, resta identica; nel senso che non tanto A. si preoccupa degli oggetti dell'etica - il bene come sostanza ad es. che peraltro è il punto centrale del distacco dal maestro o l'oggetto felicità - ma gli interessa cogliere il rapporto tra l'agire umano nelle sue differenti forme espressive e il mondo circostante. E anche questo è indubbiamente un aspetto che anticipa le teorie etiche contemporanee, penso alla pluralità della "sfera politica" della Arendt, al principio responsabilità di Hans Jonas, ai temi del riconoscimento reciproco etc.
Certo è , al di là delle nostre ipotesi in merito, che correttamente devono restare domande aperte - questo vale sia per la scienza che per la filosofia - che l'Aristotele impattato (imbrattato?) dal tomismo e di qui male utilizzato dai moderni, non pare coincidere con l'Aristotele che, ri-tradotto, sprigiona un linguaggio ancora carico di piste e percorsi innovativi. Sarà per questo che insieme a Marx - di affinità tra i due esistono e come - la teocrazia medioevale decise che A. andasse opportunament emendato..??
complimenti per le tue analisi, fiò:)
cara Mad, non mi permetto certo di giudicare le tue argomentazioni, se siano più aristoteliche o meno ;)
quello che sto cercando di fare è tirare il vecchio Stagirita un po' per i capelli, o almeno per la barba, per farmi aiutare a mettere in chiaro certi concetti. Aristotele è l'ispiratore, e forse non sarebbe d'accordo su diverse cose che ho scritto, ma tant'è. E' importante per me riconoscere il contenuto innovativo del pensiero di costui, al di là delle schematizzazioni alle quali ci hanno abituato da una parte l'adozione scolastica medievale, dall'altra la tradizione accademica (che citi pure tu) che vorrebbe Aristotele legato a una visione ingenua della scienza.
Quello che spero di riuscire a chiarire nei post prossimi, e nella discussione con voi, è che secondo me Aristotele aveva individuato una traccia estremamente precisa e "ficcante" (in gergo calcistico) per collegare il mondo dell'esperienza e il mondo interiore, senza dubbio (almeno dal mio punto di vista) più produttiva e più adeguata della visione platonica....
ma aspetto di andare avanti, e di leggere i vostri contributi, per continuare ad elaborare :))
PS: ho incicciottato le impostazioni del blog... risulta più leggibile cosi?
rileggendo...
farei attenzione a non tentare di "convertire" Aristotele ancora una volta, in realtà medioevo e modernità non hanno fatto altro; non credo che l'interesse aristotelico sia condurre il mondo esterno, natura o polis che sia, all'interno della mente umana e viceversa; ma è la relazione tra interno ed esterno che Aristotele punta a cogliere e a definire - sia in etica che in fisica - ; la questione della relazione fa entrare nel discorso filosofico la differenza , la dis-locazione (dei beni e dei fini ad es. nell'Etica) , il movimento, la pluralità ...e allora si capisce che andava "assolutamente convertito" o almeno riportato al nido di babbo Platone; dove poiché si predica l'anima libera dalle catene del corpo si impedisce ogni possibile relazione tra il mondo esterno e l'umano e ogni esperienza efficace e trasformativa del mondo ...
buona giornata :)
fiò
oh, yes. è questo che intendevo con "schivare le tentazioni alla Berkeley", l'estremismo di esse est percipi.
il confine esterno/interno c'è, e c'è della roba che fa dentro e fuori attraverso il confine. l'idea non è quella di arrivare al forsitan in praesentia somniamus, che è tanto bello e poetico ma non fa fare molta strada. invece, vorrei continuare a usare (mi perdonerà il barbuto filosofo) Aristotele come trampolino per aggirare le tagliole di un certo pensiero minimalista, e mettere a fuoco certe contraddizioni moderne, fra scienza e fedi, fra scienza e cultura, fra scienza e intellettuali.
chissà se ci riesco... (ma con il tuo/vostro aiuto è più facile ;)
ma...si lavora poco in 'sta bottega ...;))(fiò)
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