07 luglio 2008

superiorità del monoteismo ? elogio del politeismo....

Come (ne sono certo) chi legge, ho sentito tante volte usare come una clava filosofica l'argomento secondo cui il monoteismo avrebbe preso il posto del politeismo, in quanto "superiore". Superiore in cosa? Moralmente, eticamente, economicamente, socialmente...? E, nel caso, da misurarsi con quale strumento, e su quale scala?
Se la misura fosse puramente economica, dovremmo riconoscere mestamente che, non molto dopo l'ascesa del cristianesimo, il mondo occidentale è precipitato in una delle crisi più oscure della sua storia, ed è finito dritto dritto in quello che poi è stato battezzato Medio Evo. Misura scarna e imprecisa, temporalmente richiederebbe di estendere un processo di decadenza economica su almeno un secolo e mezzo (diciamo dall'Editto di Costantino alla definitiva caduta di Roma). Oggi siamo abituati a crisi economiche che nel giro di pochi mesi, o addirittura ore, fanno precipitare le borse, ma anche con i dovuti distinguo, un secolo e mezzo pare un po' troppo. E d'altra parte, l'altro monoteismo che si andava imponendo nel vicino oriente pare aver piuttosto portato, nel volgere dello stesso secolo e mezzo o giù di li', all'ascesa politica ed economica di quella che oggi definiremmo una "unione Panaraba". Partiti come una banda di straccioni a metà del sesto secolo, troviamo gli Abbasidi un secolo dopo padroni di mezzo oriente, pronti nel giro di pochi decenni a prendersi il resto del nord Africa e piazzare la loro capitale a Cordova, in mezzo alla Spagna, passando il potere agli Ommayadi.

Niente affatto, non ci siamo. Direi che gli eventi storici fra la fine dell'età antica e l'alto Medio Evo vadano interpretati con altri parametri, i conflitti religiosi cosi' come ce li insegnavano alle scuole medie non mi pare c'entrino gran che. Bisognerà fare ricorso a spinte sociali, pressioni demografiche, carestie e necessità di nuovi spazi ad ovest per le tribù "ariane" centro-europee, e per quelle "semitiche" arabe. Quelli devono essere i motivi, piuttosto.

Si, vabbé, ma allora il politeismo ? Ecco, mi serviva l'introduzione per registrare in queste pagine uno scritto di Mario Manacorda...

Dal politeismo al monoteismo

di Mario Alighiero Manacorda
da "Lettera Internazionale"

Questo articolo è lo sviluppo della relazione introduttiva al Convegno su “2004: una Costituzione laica per l’Europa”, tenutosi nella sala della Protomoteca in Campidoglio a Roma, sabato 9 febbraio 2002, per iniziativa della Società laica e plurale.

Ogni volta che salgo qui in Campidoglio, mi piace dare uno sguardo, oltre che a Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, ritratto a cavallo come guerriero ma col braccio levato in un ampio gesto di pace, anche ai musei capitolini, che ospitano il monumento sepolcrale di due tra gli ultimi rappresentanti del paganesimo, il console Pretestato e la moglie Paolina, morti nel 384 e 385 dell’era volgare. Nel monumento sepolcrale i due coniugi si rivolgono a vicenda alcuni versi scolpiti nel marmo, in cui lui esalta lei, “dedita ai templi e amica dei Numi, pudica, fedele, pura nella mente e nel corpo, benigna a tutti, utile ai Penati”; e lei esalta lui, che nei dodici dèi del culto romano vedeva il numen multiplex del dio unico, il Sole. Era lo stesso dio unico che anche Giuliano l’Apostata (la famiglia con lui imparentata dei Ciconii faceva anch’essa parte del circolo dei Saturnalia) aveva venerato come immagine di quel Dio padre, Zeus pater, a cui chiedeva di mostrargli “la via che porta su, verso di te”. Nella loro casa Macrobio immagina nei Saturnalia che in liberalia colloquia, alternando, come nel Simposio di Platone, seriae disputationes e qualche sermo iucundior, si rivisitasse la tradizione culturale “pagana”. Tali erano questi ultimi “pagani”.

Parlerò del loro secolo, ma intendendo fare un discorso attuale, perché in quello si svolse e si risolse il conflitto tra “paganesimo” (una parola per me positiva, che userò da ora in poi senza virgolette) e cristianesimo. Nasce infatti allora, grazie al connubio col potere imperiale nella sua fase più autocratica, ereditandone la sede e in parte il potere, la forma del cristianesimo come religione rivelata, dogmatica e intollerante, che fa capo al papato romano; nasce allora l’antagonismo dei due poteri, ignoto al mondo classico, che, attraversando tutto il Medioevo e l’età moderna, è ancora oggi presente come rapporto conflittuale tra Stato e Chiesa.

Il breve secolo IV

Mi sia consentito rievocare brevemente i dati minimi della storia di questo secolo breve, entro il quale inquadrare gli elementi della grande battaglia ideale.

Il secolo si apre con la vittoria di Costantino contro Massenzio a Ponte Milvio, nel 312, quando il cristianesimo, religione di pace, innalzò contro il labaro imperiale di Ercole la croce di Cristo come vessillo di guerra: In hoc signo vinces! Possiamo forse ignorare che l’esercito vincitore non era certo cristiano, dato che fino al giorno prima non sapeva nulla della visione cristiana del suo comandante? E che ambedue gli eserciti erano composti di mercenari? Al momento del congedo i veterani acclameranno Costantino col grido rituale: “Dei te nobis servent”, al plurale: e solo due secoli dopo il Codice di Giustiniano lo correggerà al singolare. Come è noto, subito dopo la vittoria, nel 313, Costantino promulgò il suo famoso editto: non cristiano, si badi, ma pagano, almeno nella forma, e perciò politeistico, “di tolleranza”; ma presto il suo esito pratico sarà l’intolleranza, una religione imposta a forza, grazie all’alleanza tra potere imperiale ed ecclesiastico. Poi, nel 330, trasferiva la capitale dell’impero a Costantinopoli, lasciando quella Roma che era la roccaforte dell’aristocrazia senatoria pagana, e dove si affacciava nel papato un potere alleato ma rivale. Intanto, non a caso solo ora, sotto l’egida del potere imperiale, nei primi concilii ecumenici di Nicea nel 325 e di Costantinopoli nel 381, il cristianesimo definiva la sua teologia e la sua struttura autocratica.

A questo consolidarsi del cristianesimo come potere si oppose, tra il 361 e il 364 il breve tentativo di Giuliano “l’Apostata”, cui dopo la nuova repressione cristiana seguì, qui in Roma ma anche in Atene e Alessandria, una breve rinascita pagana, che ebbe nel circolo romano dei Saturnalia una sua alta espressione. Ma nel 396, mentre la repressione imperiale si esprimeva in una serie di duri editti, nella battaglia sul fiume Frigido, ai confini nord-orientali d’Italia, il “pacifico” cristianesimo con Teodosio vinceva ancora una volta in guerra; e nel 409, il sacco di Roma a opera dei visigoti cristiani di Alarico metteva l’ultimo sigillo.

Questi gli eventi essenziali di quel secolo, decisivo anche per noi: e con millenni di storiografia, archeologia, antropologia culturale, sociologia eccetera, ancora non sappiamo spiegarci compiutamente perché il cristianesimo abbia vinto, e perché in guerra. Scartando, ovviamente, la vacua ipotesi dell’intervento divino con le sue miracolose visioni e i massacri in guerra, dobbiamo domandarci: quali furono queste cagioni? Forse, entro le complesse questioni socio-economiche della crisi generale dell’impero, la forza di attrazione della iniziale connotazione rivoluzionaria del cristianesimo? O, di là dalla casualità delle guerre, la sempre più profonda divisione tra intellettuali e popolo, che lasciava gli intellettuali pagani in una solitaria difesa della tradizione, dall’apparenza conservatrice? O una superiorità culturale e morale del monoteismo cristiano sul politeismo pagano?

Dal mito al dogma

Cerchiamo di capire come si svolse la battaglia delle idee in quel decisivo quarto secolo.
Una vulgata storiografica, che ancora rispecchia le idee dei vincitori cristiani, continua a tramandarci un’immagine dominante: da una parte politeismo, dall’altra monoteismo: romani politeisti e intolleranti, cristiani monoteisti e tolleranti; romani persecutori e cristiani perseguitati; romani dediti ai circensi e cristiani dediti alle chiese, gli uni feroci e gli altri miti, e così via. Che gratificante immaginazione storica! Ma è credibile? In realtà questa vulgata è da rovesciare: ma per farlo dobbiamo cominciare dal chiarirci le idee su politeismo e monoteismo.

Riprendendo la paradossale definizione delle idee platoniche che Croce riferiva di aver ascoltato da un vecchio filosofo napoletano, potremmo suggerire una cautela preliminare: non fare di politeismo e monoteismo dei “caci cavalli appisi”, cioè non elevare questi nomi o astrazioni a enti, dando loro la consistenza materiale di cose reali, appese sopra le nostre teste. Questi nomi o etichette altro non sono che allusioni, di cui ci serviamo in ogni campo della ricerca culturale, presupponendo un comune loro significato nelle menti dei nostri interlocutori. Ma guai a dimenticare che sotto di essi vivono, in determinate condizioni sociali e culturali, persone vive, diverse tra loro, e in sé contraddittorie; e guai ad attribuire loro una connotazione positiva o negativa. Tuttavia continueremo a usarli, magari tra virgolette ideali, purché con questa consapevolezza.

Si può dire in sintesi che il politeismo rappresenta una concezione analitica, il monoteismo una concezione sintetica dell’universa natura, anche se né l’uno né l’altro si esauriscono in queste forme. Il politeismo, infatti, si presenta a sua volta in un duplice aspetto: da una parte come culto di una molteplicità di presenze o forze naturali, cielo e corpi celesti, terra e mari, monti, laghi, fiumi, sorgenti, boschi, e le manifestazioni atmosferiche e così via, premesse della nostra vita, concepite come manifestazioni divine; dall’altra, come molteplicità diffusa di culti etnici monoteistici, in cui ogni popolo venera i propri progenitori o fondatori o eroi eponimi, in perenne confronto, competitivo o meno, tra loro. E anche il monoteismo presenta una sua duplice natura, da una parte come rinvio, di là dalla moltitudine delle manifestazioni naturali, a un loro principio unico; dall’altra, come una forma intollerante del politeismo diffuso, ma “geloso” (la definizione è di Mosè), per cui il proprio dio appare a ciascuno superiore agli altri, quindi l’unico vero. In questo caso, la superiorità intellettuale e morale, nelle menti degli uomini reali, dell’una o dell’altra versione della religione, quella politeistica o quella monoteistica, sarebbe tutta da dimostrare: né, d’altronde, si scriverebbe così la storia della filosofia.

Tipico, in concreto, l’esempio dell’incerto procedere degli ebrei tra politeismo e monoteismo. Sì, c’è nella Genesi la presenza di un dio unico, ma talmente confusa che in realtà si vedono due dèi diversissimi, l’uno creatore per la forza della parola, l’altro un signore di terre aride, che attende chi gliele irrighi e coltivi. Ma è poi politeista il patriarca Abramo che si confronta con gli dèi di altri re, ricevendone la benedizione e pagando loro le decime. E tra gli ebrei compaiono perfino piccoli dèi etnici, lari o penati, come tra Labano e Giacobbe, zio e nipote, che dichiarano: “Il dio di Abramo e il dio di Nacor siano giudici tra noi”. E Mosè, dovendo dare alla “masnada promiscua e raccogliticcia”, fuggita con lui dall’Egitto, un dio etnico e “geloso” che ne facesse un popolo, impone, con una guerra civile, il precetto “Non avrai altro dio fuori che me”, che è tutto meno che monoteistico. E durante la monarchia il culto del dio unico – evidente proiezione in cielo del monarca terreno – si affermerà con le armi nella lotta contro i culti delle alture, dove si veneravano gli dei etnici dei clan. E l’ambiguo processo dal politeismo al monoteismo si compirà al ritorno dalla cattività babilonese, quando, con Esdra e Neemia, sotto l’influsso del dio unico dei persiani di Ciro, Jahvè sarà insieme il dio unico del cielo e della terra e il dio geloso del popolo ebreo: e, purtroppo, sarà anche l’emblema di un razzismo teologico che spingerà a ripudiare mogli e figli dei connubi babilonesi.

Come per gli ebrei, politeismo e monoteismo appaiono sempre variamente intrecciati, e possono mostrarsi ora tolleranti ora intolleranti. Resta comunque che, in generale e fuori dai momenti conflittuali, il politeismo è convivenza di più dèi, e perciò tendenzialmente tolleranza religiosa e accoglienza di culti altrui; il monoteismo è troppo spesso un culto geloso e magari aggressivo (o missionario). In che modo, allora, una società politeistica come quella romana, abituata ad accogliere nel proprio Pantheon tutti gli dèi, sarebbe stata intollerante? E in che modo, invece, un culto monoteistico avrebbe rappresentato una nuova e più profonda libertà?

Venendo a Roma, la sua storia mostra un ininterrotto susseguirsi di quelle che Cicerone chiamava “insitivae doctrinae”, cioè culture o religioni trapiantate o importate, a cominciare dalla etrusca e dalla greca: insitiva la doctrina, romani i mores, diceva. Anche il cristianesimo era una insitiva doctrina, un mito straniero, peregrinus: che però fu respinto. Perché diverso dagli altri? E in che cosa? Per il suo monoteismo, per i costumi, o per che altro?

Il paganesimo ellenistico-romano, almeno al livello colto degli intellettuali, tende sempre più, magari anche sotto la spinta cristiana, ad essere altrettanto monoteistico; mentre a livello popolare, e non solo, il cristianesimo appare fin troppo politeistico. Pagani e cristiani non si differenziavano molto, anche perché non c’era, se non nell’oleografia, un tipo unico dell’uno e dell’altro, e molti esitavano nel decidere quale nome o etichetta darsi, e magari si ricredevano. E gli stessi cristiani si dividevano in sètte, definite a vicenda eretiche, che si combattevano con ferocia pari a quella usata contro i pagani. E credevano anche loro nella reale esistenza degli dèì pagani, sia pure come idoli o demoni: Tertulliano definiva il circo tempio di tutti i demoni, e di fronte a questa mentalità il più riflessivo Cipriano dové scrivere un libro per spiegare che gli idoli non esistono, Quod idola non sint. E allora, dov’era la diversità?

Sembra a me che la diversità tra pagani e cristiani stia non tanto nell’opposizione tra i due “caci cavalli appisi” del politeismo e del monoteismo, quanto in un diverso atteggiamento mentale nei riguardi della religione, dell’uno o dell’altro tipo. Ciò che per i pagani è mito, per i cristiani è dogma: e qui è il discrimine tra tolleranza e intolleranza. Per dirla con Platone, il mito, cui si ricorre quando la ragione non basti a spiegare le cose, è una immaginazione plausibile, che comunque lascia aperta la ricerca, anche se poi “solo Dio sa se questa immaginazione risponda a verità”. Questo gli intellettuali pagani lo sanno bene: Giuliano l’Apostata, discutendo con Eraclio, spiega che i miti “vanno intesi in misura più che umana, non credendo semplicemente ma indagandone il significato riposto”; e del suo stesso discorso lascia incerto se “sia mito o discorso vero”; e si mostra addirittura insofferente di dover ricorrere al mito: “Costringi anche me a farmi inventore di miti”. Il mito è fantasia e ricerca, e perciò tolleranza; il dogma, ignoto alla tradizione classica, è immaginazione cristallizzata in verità assoluta, è preclusione di ogni fantasia, e perciò intolleranza. Ma i cristiani trasformano il mito in verità, la verità in dogma, e il dogma in imposizione a tutti con la forza del potere. È questa, storicamente, la differenza essenziale tra paganesimo e cristianesimo.

La tolleranza politeistica dei pagani

Tollerante era la religiosità romana: e lo mostrerò con le parole dei suoi protagonisti. Comincerò anzi da tre testimonianze risalenti al III e al II secolo a.C., provenienti dagli stessi romani, dai greci, e dagli ebrei.

Se è vero che in Roma, come presso tutti i popoli, non mancarono sacrifici umani in nome della religione, come quelli delle vestali sacrificate per le loro inadempienze rispetto al rito, è pur vero quanto ci narra Plinio il vecchio, che nel 287 a.C. i romani, primi tra tutti i popoli, nell’emendare l’antica legge delle XII Tavole, abolirono “quei sacrifici mostruosi nei quali era considerato cosa religiosissima uccidere un uomo”, sancendo “che nessuno fosse immolato” (ne homo immolaretur), cioè condannato a morte per motivi di religione. Un grande principio, mai rispettato dal cristianesimo dalla sua ascesa al potere in questo IV secolo fino a ieri, quando il potere statale gli è stato finalmente tolto. E anche più chiare sullo spirito di tolleranza dei romani le testimonianze greche ed ebraiche. Gli ambasciatori della Locride, teste Livio, li onorarono perché “non solo veneravano i loro dèi, ma accoglievano e veneravano con anche maggiori onori gli dèi degli altri”. E gli ebrei, nei due libri dei Maccabei, deuterocanonici ma storiograficamente di grande interesse, li ammiravano non solo per la loro potenza, ma anche “perché accordano amicizia ai popoli, e non c’è in loro né invidia né gelosia”: cosa che, detta da cultori di un dio “geloso”, si riferisce chiaramente alla religione. Ma è da dire che, in una città che Livio definiva “religiosissima” soprattutto nei momenti duri delle guerre, in generale gli intellettuali romani furono, semmai, piuttosto scettici o indifferenti: consideravano la religione un insieme di miti tradizionali da rispettare come la propria irrinunciabile eredità culturale, ma da ripensare in privato liberamente. Si pensi, come esempi del loro atteggiamento, all’epicureo Lucrezio, il quale cominciava il suo poema con la stupenda invocazione a Venere, insieme “genitrice degli Eneadi” e immagine della rigogliosa natura, ma denunciava poi ogni mentalità religiosa, al punto di esclamare: “Quanti mali la religione poté persuadere!”; e laicamente pensava: “Dio è che il mortale aiuti il mortale, e questa è la via verso l’eterna gloria”. Si pensi al sentire panteistico di Virgilio, col suo evocare lo Spiritus vivificante e la mens che “diffusa per le membra, agita l’intera mole e si confonde con gran corpo”. O a Ovidio, che all’inizio del gran poema sulle Metamorfosi, capolavoro del politeismo come fantasiosa lettura analitica della natura, ripercorre i due miti orientali delle origini con formulazioni identiche a quelle della Genesi biblica, ma segnandone apertamente la diversità: “Sia vero questo racconto o l’altro”. E qui c’è da domandarsi: ma perché ci siamo dimenticati di Ovidio e abbiamo voluto ricordare soltanto quel grandioso ma stupido mito della Genesi, e farne un dogma? E si pensi poi a Seneca e alla sua riflessione morale, alta indagine interiore della coscienza, che gli stessi cristiani vollero accaparrarsi. Semmai, il limite di questi atteggiamenti è che segnalano una divisione tra intellettuali e popolo, che sarà non ultima cagione della sconfitta del paganesimo.

Ma, per venire ad aspetti più concreti sulla diversità tra pagani e cristiani, ecco Cicerone disposto a credere negli dèi e in un cielo per le anime grandi (si quis piorum manibus locus...), che non credeva però negli aruspici. E Livio, un grande conservatore, che nella sua storia registrava attentamente le manifestazioni religiose in occasione di guerre e di ludi, e di fronte all’indifferentismo dei suoi tempi dichiarava: “A me, mentre scrivo di queste cose vetuste, non so come, l’animo mi si fa antico, e mi forza a ritenere degne di esser riferite nei miei annali le cose che uomini saggissimi intesero venerare pubblicamente”. Religiosità, dunque, solo in quanto rispetto per la tradizione. Perciò era loro incomprensibile il settarismo (oggi diremmo fondamentalismo) giudaico e cristiano, una superstitio. Plinio il vecchio, accomunando la religione di Mosè alle “sètte magiche”, parlava degli ebrei come di “un popolo insigne per il suo disprezzo verso gli dèi”; Svetonio di “una razza di gente di una nuova e malefica superstizione”; Tacito di “un popolo incline alla superstizione e contrario alle religioni”, che “nella sua ostinazione religiosa e nel suo odio accanito verso tutti... considera empio tutto ciò che da noi è sacro... disprezza gli dèi e ha a vile la patria”. Dove patria significa ormai quell’impero che, ai tempi di Pretestato, Rutilio Namaziano esalterà dicendo, rivolto a Roma: “Hai dato a genti diverse una patria comune” (Fecisti patriam diversis gentibus unam). Ciò che appare intollerabile ai pagani è l’intolleranza degli ebrei e dei cristiani. E questi loro giudizi ci saranno ampiamente confermati dagli stessi cristiani, che se ne faranno anzi un vanto.

Più tardi, la battaglia delle idee tra pagani e cristiani ci è testimoniata egualmente dagli uni e dagli altri: sia dai neoplatonici come Plotino e Porfirio, che dai cristiani Tertulliano e poi Lattanzio e Arnobio, i quali riferiscono l’accusa rivolta dai pagani ai cristiani, di “venerare un uomo, per di più torturato e crocifisso da uomini”, di “sostenere che un essere nato uomo e morto in croce era un dio”, di praticare nell’eucarestia, in cui il corpo mangiato preserverebbe l’anima nella vita eterna, un rito cannibalico, non giustificato nemmeno dalla sua intenzione mitologica o allegorica. E dai pagani, come ricorda Arnobio, veniva la domanda: “Se vi sta a cuore il culto divino, perché non venerate con noi gli altri dèi e non praticate in comune i riti religiosi?”. E il pagano Simmaco, amico di Pretestato nel circolo romano dei Saturnalia, nel chiedere la restituzione in senato dell’altare della Vittoria che l’imperatore Costanzo II aveva rimosso nel 357, chiariva il senso della religiosità pagana di fronte a quella cristiana riconoscendo che “ognuno ha i suoi costumi, la sua religione”, spiegando che “quasi tutti gli dèi, greci e romani e dei culti orientali, altro non sono che rappresentazioni del Sole”, e ammonendo che a comprendere “un segreto così grande non si può giungere per una sola via”: e infine, altro non chiedeva se non di “ripristinare quella condizione della religione che ha giovato a lungo allo Stato”.

Tale era il modo di vedere dei pagani, che proprio non capivano perché si volesse cancellare l’antica religione e imporne d’autorità un’altra.

La tolleranza religiosa nella Roma imperiale

Mi si dirà: d’accordo per gli intellettuali, ma il potere imperiale? Ebbene, anche il potere romano era rispettoso, anzi curioso delle religioni altrui: del resto, ciò faceva parte non solo del costume, ma anche di un progetto politico generale, di accaparramento del favore possibile di tutte le divinità, come avevano ben visto gli ambasciatori della Locride. E anche qui possiamo citarne alcune testimonianze.

Secondo il racconto dello storico ebreo Flavio Giuseppe, già nel 64 a.C., Pompeo, espugnata Gerusalemme ed entrato nel tempio di Jahvè, non solo si astenne dal toccarne i tesori, ma reintegrò i sacerdoti e ordinò riti espiatori per la violazione compiuta. Cesare rinnovò l’antica amicizia del tempo dei Maccabei, e Augusto non solo consentì che gli ebrei “seguissero i loro costumi rispettando la legge dei loro padri”, ma concesse franchigie per le rendite del tempio. Adriano meditò di innalzare un tempio a Cristo e “dispose che in tutte le città si facessero templi senza immagini, detti appunto di Adriano”. E anche Severo Alessandro, che venerava Abramo, Cristo e Orfeo, voleva innalzare templi senza immagini, ma ne fu dissuaso dai consiglieri che lo ammonirono che il risultato sarebbe stato che alla fine tutti sarebbero andati ai templi cristiani. E, ancora, secondo il cristiano Paolo Orosio, nel 244, a celebrare il primo millennio dalla fondazione di Roma fu un imperatore cristiano, Filippo l’Arabo che, a quanto pare senza troppo scandalo, avrebbe perfino trascurato i riti pagani tradizionali.

Dunque, anche l’impero era incline a riconoscere libertà religiosa per tutti. E anche dopo Costantino e i suoi successori, duri persecutori dei pagani, Giuliano l’Apostata operò formalmente nel solco della tolleranza costantiniana, quando riaprì i templi pagani senza perciò chiudere le chiese cristiane. Vero è tuttavia che, nel ridar vita alla tradizione classica, egli impose che nelle università “tutti coloro che richiedono di insegnare... abbiano convinzioni non contrastanti con quelle che professano”: non si può, diceva, commentare poeti che parlano di Giove, e credere in Jahvè o in Cristo. Chiedeva, insomma, coerenza, lasciando ai professori cristiani la scelta “di andare nelle chiese dei galilei a esporre Matteo e Luca”. Moralmente ineccepibile: anche se c’è da temere che proprio questo suo intervento possa essere servito ai cristiani come un precedente da portare a conseguenze estreme di intolleranza.

Mi si dirà ancora: sì, d’accordo, non solo gli intellettuali romani saranno stati tolleranti, ma anche alcuni imperatori che possiamo definire intellettuali saranno stati rispettosi, ma le persecuzioni imperiali ci sono state, e sadiche, e feroci. Ahimè, sì: anche se la loro ferocia è parte non di una persecuzione religiosa, ma di una repressione politica in forme comuni a tutta l’antichità. E sorvolo qui non certo per reticenza: sono cose che sanno tutti a memoria, dato che, se non altro, fanno parte della vulgata storiografica. Ma non si possono trascurare altri aspetti, meno noti e certamente più veri.

Non si possono chiamare persecuzioni religiose le prime repressioni occasionali da parte di Tiberio, Claudio e Nerone, rivolte contro ebrei e cristiani che si azzuffavano continuamente tra di loro (adsidue tumultuantes): del resto, l’impero li conosceva assai poco, confondendo le due sette, ebraica pura ed ebraico-cristiana. Le persecuzioni ricorrenti verranno in seguito, nel generale inasprirsi delle tensioni sociali, di fronte alle insurrezioni legate spesso al nome cristiano, divenute endemiche; e soprattutto di fronte all’incomprensibile rifiuto cristiano degli dèi degli altri: un’offesa a tutti gli altri uomini, prima che una ribellione al potere. La persecuzione imperiale, feroce come tutti i rapporti di pace e di guerra allora (solo allora?), non è religiosa, ma politica: come quella già avvenuta in piccolo contro i baccanali, proibiti nel 186 a.C. col Senatus consultum de bacchanalibus, rivolto non certo contro Bacco, ma contro una licenziosità contraria al mos maiorum. Non si perseguitava la religione, bensì l’intolleranza cristiana verso tutte le altre religioni, il rifiuto di far parte della patria comune. Erano i cristiani a non volere gli dèi degli altri, non gli altri a non volere il dio cristiano: e di questa intolleranza, ripeto, i cristiani si vantavano.

L’intolleranza monoteistica dei cristiani

Cristiani remissivi e pacifici? Un’altra appagante immaginazione storica! Stavano davvero così le cose? Anche qui è necessario correggere la vulgata cristiana. Di fronte alla durezza delle persecuzioni, la risposta cristiana fu dura: in quegli anni i cristiani non saranno da meno dei pagani, dapprima nell’immaginare la vendetta, poi nel praticarla.

Ma, anzitutto, che voleva poi dire essere cristiano? In quel secolo di conflitti si poteva a lungo esitare tra le due visioni della vita. Gli intellettuali pagani potevano credere in un dio padre, e gli intellettuali cristiani potevano essere pagani per la loro formazione culturale, se non anche per i costumi: è nota l’angoscia di san Gerolamo, che avendo dichiarato in sogno a Dio: “Christianus sum”, si sente rispondere: “Ciceronianus es, non es christianus”. La stessa teologia cristiana si viene spesso determinando di fronte alle accuse dei pagani, come risposta alle quali nascono i dogmi dei concilii ecumenici di questa età. Comunque, le etichette né li distinguono sicuramente, né dicono tutto su di loro. Sicché, per mostrare l’animo dei cristiani citerò, come ho fatto per i pagani, testi precisi: anch’essi non marginali, ma una costante del loro atteggiamento.

Nel 202, Tertulliano, avendo sperimentato le persecuzioni, sogna sadicamente, nel libro De spectaculis, la punizione dei persecutori nel finale giudizio di Dio: “Che spettacolo immenso allora! Che cosa ammirerò? Di che riderò? Dove godrò, dove esulterò vedendo tanti re, che si celebravano accolti in cielo, gemere con lo stesso Giove e i suoi testimoni nelle tenebre più profonde? E, come loro, i magistrati che perseguitavano il nome del Signore, struggersi su fiamme più spietate di quelle con cui avevano incrudelito sui cristiani, insultandoli?”. Ammira, ride, gode, esulta, come nessun intellettuale pagano si era mai sognato di fare.

E, un secolo dopo, Lattanzio, nel 316, gode anche lui, sadicamente elencando nei loro atroci particolari le Morti dei persecutori, tutti finiti male per l’Ira di Dio (sono titoli di suoi libri), e commenta: “Quelli che avevano insultato Dio giacciono, quelli che avevano abbattuto il santo tempio caddero con rovina maggiore, e quelli che avevano scarnificato i giusti, profusero le loro anime malvagie sotto i colpi celesti e i meritati tormenti”. Già, i meritati tormenti: non è dunque l’idea in sé dei tormenti che disturba i cristiani, ma l’idea che siano applicati a loro e non agli altri.

Ed Eusebio, vescovo di Nicomedia e biografo di Costantino, gode nel prefigurare la vendetta divina: “Così possano perire i nemici di Cristo!”. E Firmico Materno, nel De errore profanarum religionum, così esorta gli imperatori cristiani a perseguitare i pagani: “La legge del sommo Dio esige che la Vostra severità perseguiti in ogni maniera il delitto di idolatria”, e sui modi della persecuzione cita il Deuteronomio, che prescrive che se un fratello o un amico ti spinge all’idolatria, ”lo accuserai, e la tua mano sia la prima a levarsi su di lui per ucciderlo... E anche intere città, se mai sono còlte in questo peccato, è stabilito che periscano”.

E il santo Gerolamo, autore della vulgata del Nuovo testamento, intervenendo nella polemica sul culto delle pietre (le statue degli dèi) da parte dei pagani, e delle ossa (le reliquie dei martiri) da parte dei cristiani, usava nelle sue Lettere questo affettuoso ed elegante linguaggio: “Vigilanzio apre di nuovo la sua fetida bocca e butta il suo schifosissimo fiato contro le reliquie dei santi martiri e contro di noi, che le conserviamo”; perciò piamente suggeriva che il vescovo “lo consegni alla morte della carne, affinché sia salvo lo spirito..., e che i medici taglino la lingua... a quel mostro..., pazzo furioso”.

E Prudenzio, nel suo Peristephanon, celebrando i martiri cristiani, così fa parlare la vergine Eulalia durante il processo: “Eccomi, io sono nemica della vostra religione demoniaca (daemonicis inimica sacris), e ne calpesto gli idoli sotto i miei piedi”; e quando il pretore le chiede non di rinunciare al suo dio, ma di rispettare gli dèi degli altri, “freme e sputa negli occhi al tiranno, poi rovescia i simulacri e calpesta col piede il farro versato nei turiboli”; e poi, torturata, “canta lietamente”, finché la sua anima vola visibilmente al cielo in forma di colomba, lasciando tutti sbigottiti.

La sola certezza in questa leggenda dai toni aspramente sadomasochistici è il disprezzo cristiano verso le altre religioni: e non risulta comunque che poi qualche pagano, dichiaratosi nemico del demoniaco culto cristiano, sia stato piamente perdonato. E a Simmaco, che abbiamo sentito dichiarare l’impossibilità di capire i grandi misteri della vita per una sola via, un altro santo, Ambrogio, risponde superbamente: “Ciò che voi ignorate, noi lo abbiamo conosciuto dalla voce di Dio. E ciò che voi cercate con le vostre ipotesi (suspiciones), noi lo abbiamo per certo dalla Sapienza di Dio e dalla Verità”. È, da parte di chi sente di avere ormai vinto, il rifiuto di ogni dialogo e l’imposizione del dogma; e la sua conclusione è un secco rifiuto: “Le vostre idee non si accordano con le nostre”, cui seguirà, a differenza di quanto aveva fatto Giuliano, la chiusura dei templi e la fine di ogni culto pagano.

La stessa intransigenza troviamo nella rilettura ideale della storia di Roma, sul merito o il demerito degli dèi pagani nelle sue vicende. Già Arnobio citava l’accusa pagana ai cristiani che “da quando al mondo cominciò a esserci la gente cristiana, l’orbe terrestre era andato in rovina”; e abbiamo sentito Simmaco invocare rispetto per la religione che “aveva giovato a lungo allo Stato” (i cristiani rovesceranno questa accusa, facendone anzi un cavallo di battaglia).

Tra l’altro, ci fu allora un rifiorire della storiografia pagana, con le Storie di Ammiano Marcellino, amico di Giuliano, e coi compendi di Eutropio e Festo o della Historia Augusta, destinati a creare una coscienza romana nella nuova, ignara, burocrazia bizantina: e vi si accompagnava un rifiorire della poesia in Claudiano, Rutilio Namaziano e altri, stanca e imitatrice quanto si vuole, ma non priva di una sua dignità e di umani affetti. Ebbene, proprio a quelle accuse, a quell’accenno di Simmaco e a quella storiografia sembra replicare Agostino, quando nella Città di Dio addita in tutta la storia di Roma nient’altro che una serie ininterrotta di disastri dovuti alla impotenza dei suoi falsi dèi. Affermazione, a dir poco, paradossale, dopo il sacco di Roma del 409, a opera dei visigoti cristiani: ma per lui quella era stata una vittoria sul paganesimo.

Non pago di questo, Agostino volle affidare la riscrittura cristiana di tutta la storia romana al suo discepolo Paolo Orosio, che premurosamente si accinse al grave compito: “Ai tuoi comandi ho obbedito, o beatissimo padre, Agostino. Mi avevi comandato di mostrare quanto negli annali dei secoli passati avessi potuto trovare di grave per le guerre, di corrotto per le malattie, di triste per la fame, di terribile per i terremoti, di insolito per le inondazioni, di tremendo per le eruzioni vulcaniche, di feroce per le cadute di fulmini e della grandine, di miserabile per i parricidii e le scellerataggini”. Che sadico inventario dei mali del mondo, per dimostrare che la trionfante Roma pagana, creatrice del più straordinario impero della storia, aveva subìto sconfitte peggiori di quelle che il desolato impero cristiano stava soffrendo nei nuovi, sventuratissimi tempi! Che modo idiota, bisogna pur dirlo, dato che era tale anche per la cultura di allora, di scrivere la storia come storia degli orrori! Un modo obnubilato dall’odio teologico, sconosciuto agli storici pagani e a ogni altra storiografia.

Leggendo questi testi, non sembra davvero che il monoteismo, e tanto meno il cristianesimo, abbia reso migliori gli uomini.

I cristianissimi concilii ecumenici

Mentre gli intellettuali cristiani manifestavano così la dubbia superiorità del loro dubbio monoteismo, si veniva consolidando la difficile alleanza tra potere imperiale e Chiesa cristiana, quale intanto si definiva nei concilii ecumenici. Non si possono leggere questi concilii come astratta elaborazione intellettuale, avulsa dalla realtà circostante: questi concilii sono incomprensibili senza gli evidenti riferimenti al contesto del tempo.

I primi concilii ecumenici, cioè di tutta la cristianità (di Nicea nel 325 e Costantinopoli nel 381, cui seguì quello di Edessa nel 431), che tennero dietro a una ventina di concilii locali dei secoli precedenti, furono pesantemente condizionati dalla supervisione imperiale. Essi stabilirono anzitutto la dottrina, ma anche, al suo riparo, la posizione della Chiesa al di sopra dei fedeli e, naturalmente, di tutti. Ma è soprattutto alla polemica pagana che essi intendono rispondere: facendo delle accuse un vanto, e trasformandole orgogliosamente in dogmi apertamente irrazionali.

Si sa che non solo i pagani, ma anche molti cristiani, come Ario, rifiutavano l’assurdità di un uomo-dio e l’identità del Figlio col Padre, necessaria alla fondazione divina della Chiesa. Ecco allora a Nicea un Simbolo o Credo che poneva fine alla disputa approvando i dogmi sulla Trinità divina (qualcosa di simile già in Plotino), fatta di un Dio Padre, creatore del cielo e della terra; del Figlio unigenito, “generato ma non fatto”, il quale, “incarnato di Spirito Santo e da Maria Vergine, si è fatto uomo”; e infine dello Spirito Santo, del quale per allora non si disse niente, sicché più tardi a Costantinopoli si dovette aggiungere che “procede dal Padre” (senza peraltro definirlo figlio, dato che Cristo è figlio unico), ma dimenticando di dire che procede anche dal Figlio, sì che si dovrà provvedervi più tardi dicendo “che procede dall’uno e dall’altro” (procedenti ab utroque), dirà san Tommaso nel Pange lingua. E l’aggiunta che lo Spirito “parla per bocca della Chiesa” significava consacrare un potere che, in quanto disceso non da un uomo, ma da un ”vero dio e vero uomo”, è autocratico, anzi teocratico; e significava confermare la immunitas del vescovo di Roma, “sottratta alla possanza dei re, dei principi, dei popoli interi, conoscendosi, in chi vi siede, rappresentato Cristo Signor nostro, principe supremo ad ogni foro e ad ogni principato”, sancita dal concilio di Roma di un anno prima.

Era il preludio alla sua infallibilità: la Chiesa si poneva così al di sopra dei suoi stessi fedeli, come potere teocratico, al pari di quello dell’Impero. Tutte queste teologiche insensatezze, frutto di compromessi raggiunti attraverso conflitti sanguinosi, e imposte come dogmi, valsero comunque a definire quell’ambiguo sistema di convivenza conflittuale di due poteri, impero e papato, cioè Stato e Chiesa, incerto tra cesaropapismo e teocrazia, ignoto al mondo antico, e che segnò tutto il Medioevo e pesa ancor oggi sulla nostra vita politica.

La condanna della gioia di vivere

Se tali erano la durezza dei grandi intellettuali cristiani e l’intransigenza dogmatica della Chiesa contro tutta la tradizione pagana, occorre dire che altrettanto duro fu anche l’orientamento dell’impero ormai cristianizzatosi. Dalla iniziale tolleranza costantiniana, pur solo formalmente dichiarata, si passò presto a una intolleranza peggiore di quella del potere imperiale pagano.

In questo processo c’è un aspetto tanto vistoso quanto di solito trascurato: che esso si rivolge contro le manifestazioni non solo della vita culturale ma anche, e forse più, della vita ludica, fisica e intellettuale, cioè circensi e teatri. Può sembrare un paradosso, ma la polemica cristiana ha insistito in forme maniacali contro la vita ludica, dando fra l’altro luogo a un’altra inaccettabile vulgata storiografica, cioè che i romani altro non facessero che darsi a teatri e circensi, e che nell’eccesso dei circensi fosse la principale causa della caduta dell’impero. In realtà, la società politeistica pagana aveva mostrato una totale coerenza tra l’ideologia e il costume di vita: la vita ludica era mimesi gioiosa della vita impegnata delle armi e della cultura; teatro e circensi, ludi dell’uno e dell’altro genere (ludi utriusque generis), intellettuale e fisico, erano atti religiosi, per il culto degli dèi e il piacere degli uomini (cultus deorum et hominum voluptatis causa). Per questo, cosa lontanissima dalla cultura di oggi, Varrone ne aveva parlato nelle Antichità divine, e ora Macrobio confermava, tra l’altro, che “i culti si celebrano quando si fanno ludi in onore degli dèi”. Ebbene, proprio per questo, non solo gran parte della polemica cristiana si rivolge contro i ludi, ma anche gli imperatori si accaniscono contro di essi: la cancellazione dei ludi è una persecuzione religiosa.

Già alcuni concilii locali avevano fulminato pene gravissime contro quanti “nei ludi dei circhi, dei teatri e delle arene si scomponessero nel guidar cocchi e atteggiarsi da buffone”. A queste condanne della Chiesa si aggiunsero in modo risolutivo, a fine secolo, quelle dell’impero: gli imperatori Valentiniano, Arcadio, Teodosio e Onorio, nel 392, 394 e 399, rovesciando la tolleranza costantiniana e distorcendo la lezione morale di Giuliano, proibirono tutte le manifestazioni pagane, intellettuali e fisiche, nei templi, nei teatri e nei circhi. E pochi anni dopo, nel 409, l’imperatore d’Oriente, Teodosio II, ribadiva la condanna con le stesse e anche più precise parole: “Di domenica, primo giorno della settimana, e a Natale, Pasqua e Quinquagesima, è proibito ogni divertimento dei teatri e dei circensi, tutte le menti dei cristiani e dei fedeli siano occupate nei culti di Dio”. Si badi, le menti: dalla politeistica e pagana libertà di culto, si è ormai passati alla monoteistica e cristiana costrizione non solo dei comportamenti (i mores), ma anche delle menti (la doctrina). Si doveva essere cristiani per forza, pensare come volevano la Chiesa e l’impero. Con queste, che ad Agostino parevano “misericordiosissime leggi”, minaccianti punizioni divine ed umane, si attuava una cosa nuova e tremenda, ignota al politeismo pagano: si creava un dualismo dei poteri, uno dei quali addetto al dominio sulle menti.

Paradossalmente, tutto ciò si manifestava nella polemica contro la vita ludica, mimesi gioiosa della vita reale. Eppure, anche su questo punto c’è una vulgata storiografica, che “da queste feste i cristiani si tengono lontani per ragioni di ordine morale”. Che appagante immaginazione storica, anche questa! I pagani empi e tutti dediti ai teatri e al circo, i cristiani pii e riservati in chiesa! Fatto sta che le proibizioni imperiali la smentiscono: non si proibisce se non ciò che si suole fare, e in generale la prima lettura che si dovrebbe fare delle leggi nella storia, è che ci informano sul contrario di quello che prescrivono o proibiscono: in particolare, queste leggi cento volte ripetute contro teatri e circensi ci mostrano come esse fossero normalmente trasgredite dagli stessi cristiani. Del resto, sono più volte gli stessi padri della Chiesa a mostrarci i cristiani impazzare e sputtaneggiare (bacchari et moechari) nei teatri e nei circhi. E Agostino ci narra che, dopo le grandi persecuzioni durante le quali molti cristiani erano ricaduti, lapsi, nel paganesimo, molti che sarebbero voluti tornare cristiani “rimpiangevano queste pericolosissime e tuttavia antichissime voluttà”.

Che fare, allora? Semplice: “Parve opportuno celebrare altri giorni festivi in onore dei santi e dei martiri, non con tale sacrilegio quantunque con simile lusso”. Insomma, si cambiò il nome delle divinità cui dedicare le “voluttà”: ma così si perse l’antica coerenza tra ideologia e vita, si tolse ai ludi il loro valore religioso di mimesi della vita seria, che era l’altissima virtù del paganesimo. D’ora in poi, tra ludi e religione, tra svaghi e morale si instaura una contraddizione insanabile, e ne risulterà un inguaribile spirito di ipocrisia, un divaricarsi tra predica e pratica, che accompagnerà tutta la civiltà cristiana.

Più tardi, negli anni intorno alla caduta dell’impero d’Occidente, Salviano, vescovo di Marsiglia, tornerà su questo tema definendo, con amaro gioco di parole, “i pubblici ludi ludibrio della nostra vita”; e, dando ai circensi la colpa della decadenza di Roma (confondeva, semmai, la causa con l’effetto), aggiungerà: “Tutto il mondo romano è misero e lussurioso. Chi, domando, è povero e scherza; chi, aspettando la prigionia, pensa al circo; chi teme la morte e ride? Noi anche nel timore della prigionia giochiamo e, posti nel timore della morte, ridiamo. Potresti credere che tutto il popolo romano si sia saturato di erbe velenose: muore e ride”. Questa strana idea cristiana di una Roma che muore ridendo è un’altra vulgata storiografica, seriosamente ripresa anche da tanta moderna storiografia, a cominciare dal grande Gregorovius. Eppure, come non vedere che nei ludi, mimesi gioiosa della virtus romana, si esprimeva la nostalgia dell’antica grandezza?

L’odio teologico e i suoi guasti

La polemica infuria ancora contro questa Roma prostrata. Agostino, vissuto nel momento in cui Teodosio celebrava i fasti della sua intolleranza, esultava perché l’imperatore “dall’inizio del suo stesso impero non cessò di aiutare la Chiesa travagliata per mezzo delle sue giustissime e misericordiosissime leggi contro gli empi”: dove gli avversari sono tali perché empi, e diventa misericordia il minacciare pene perfino alle coscienze. Ma, ad additare l’incoerenza delle accuse cristiane, valga la polemica di Agostino sulla pena di morte. I pagani, diceva, sogliono uccidere, mentre “i cristiani non uccidono nessuno”. Peccato che subito dopo aggiungeva una tremenda riserva, che ricorda le minacce di Teodosio e risuona tanto più torva dopo le tremende stragi gotiche di Roma, che lui e i suoi cristiani avevano rimpianto che non fossero state totali, una shoah, contro i pagani: “non uccidono nessuno, eccetto quelli che Dio comanda di uccidere” (exceptis his, quos Deus occidi iubet). E, a scanso di equivoci, ripeteva e precisava: “Eccetto dunque quelli che o una legge giusta generaliter o la stessa fonte della giustizia, Dio, specialiter comanda di uccidere...”. E che altro è questo presunto comando di Dio, se non l’arbitrio di quelli che si autoproclamano suoi rappresentanti in terra?

Questo sadismo teologico, che uccide negando di uccidere, è cosa esclusivamente cristiana: si ricordi il decreto romano, citato da Plinio il vecchio, ne homo immolaretur. Ma in Agostino c’è anche dell’altro. Quante volte si è scritto che il cristianesimo ha abolito la schiavitù? Ebbene, eccolo ancora: “Si comprende che la schiavitù è imposta a buon diritto al peccatore... La prima causa della schiavitù è il peccato”. E il peccato, secondo lui e comunque da Teodosio in poi, è anzitutto il credere in un dio diverso da quello predicato dal beatissimo apostolo Pietro, e imposto a tutti dall’imperatore. E pensare che già Seneca aveva scritto, e Macrobio ripetuto: “Ma perché tanta ingiustificata avversione per gli schiavi? Come se non fossero uguali a te... Sono schiavi, anzi uomini. Sono schiavi, anzi compagni di servitù, se rifletti che la sorte esercita sugli uni e sugli altri il suo potere in ugual misura”. Agostino è stato uno dei grandi padri della Chiesa, che da lui ha appreso per secoli le ragioni della sua fede e dei suoi comportamenti, anche su queste due questioni di principio, quali la pena di morte e la schiavitù.

E se, a riprova, mi è qui concesso un diretto riferimento a quell’oggi, che ho cercato di dimostrare nato in quel IV secolo, ecco il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, dell’11 ottobre 1992, sancire il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte: una sentenza pubblicata nel fervore delle iniziative mondiali per abolirla. E sarebbe poco, se poi non si intendesse giustificare questa tesi spiegando che “nei tempi passati, da parte delle autorità legittime si è fatto comunemente ricorso a pratiche crudeli per salvaguardare la legge e l’ordine, spesso senza protesta dei pastori della Chiesa, i quali nei loro propri tribunali hanno essi stessi adottato le prescrizioni del diritto romano sulla tortura”. Come dire che la colpa è del diritto romano: eppure la Chiesa, mentre lo assumeva tranquillamente per questa parte omicida, ne stava cancellando ogni traccia nella tradizione culturale e nella sua mimesi ludica. Ma il paragrafo del Catechismo continua: “Accanto a tali fatti deplorevoli, però, la Chiesa ha sempre insegnato il dovere della clemenza e della misericordia: ha vietato al clero di versare il sangue”: certo, lasciandolo materialmente versare per secoli, su sua indicazione e sotto la sua supervisione, al braccio secolare dello Stato, e addirittura santificandolo come auto da fé, atto di fede.

E a proposito del diritto romano, come non ricordare che il cristianesimo dove non ha potuto distruggere tutto ciò che era pagano, se lo è accaparrato? Giustiniano, questo imperatore che, secondo Procopio, era “praticamente analfabeta, cosa che non si era mai vista nell’impero romano..., e che nella lingua, nell’aspetto esterno e nella mentalità si comportava come un barbaro”, ordinata la raccolta delle leggi romane (c’è forse qualcosa di più pagano?) la intitolerà al nome di Cristo: Prooemium de Confirmatione Institutionum, In nomine Domini nostri Jesu Christi...”. Che impudente falsificazione storica! Il cristianesimo o cancella o si accaparra quanto di vitale c’è nel paganesimo: accoglie l’eredità delle sue leggi, proibisce o santifica i suoi ludi, trasforma i templi in chiese, come in “Santa Maria sopra Minerva”, sostituisce gli dèi con angeli e santi, chiama il papa Pontefice Massimo, occupa la sua sede, fuori della quale e senza la quale il vescovo di Roma non sarebbe papa.

Certo, la società imperiale romana, che già ai tempi di Livio “soffriva per la sua stessa grandezza”, era ormai giunta al culmine di una gloriosa e tremenda parabola storica. Eppure, essa ha conservato agli occhi della storia un suo fascino, non solo per la sua grandezza, ma anche per una virtù che la fece apparir bella agli uomini del Rinascimento, e che le successive società cristiane hanno per sempre perduta: la coerenza tra l’ideologia e il costume di vita, tra la doctrina e i mores.

Per un nuovo politeismo laico

Concederò volentieri che questa mia critica della vulgata storiografica non è tutta la storia né del paganesimo né del cristianesimo. È tuttavia un aspetto non confutabile della loro storia, che ho documentato con atti e parole non occasionali ma coerenti dei loro protagonisti: se non lo si assume, non si capisce niente. So bene, d’altra parte, che questo cristianesimo intollerante e ipocrita ha tuttavia rappresentato un momento alto della storia umana, vivendo al suo interno aspre contraddizioni (il bene e il male si annidano dappertutto): so che il suo “dare a Dio quel che è di Dio” può aver rappresentato una rivendicazione di libertà delle coscienze; so che in suo nome, accanto alle infamie del potere, ci sono le opere oneste e gli affetti profondi di tante persone che si sono proclamate cristiane. Tuttavia, è pur vero che esso (soprattutto in ciò che fu in quel determinante secolo IV) non è in grado di evocare alcuna coerente immaginazione storica di bellezza o di grandiosità, come la evocano l’antica Grecia e l’antica Roma. Certo è che il cristianesimo non ha migliorato il mondo, non ha reso gli uomini migliori e, per quel tanto che può avere avuto di intimamente sovvertitore, diciamo pure di rivoluzionario, è stato, come sempre nella storia, una rivoluzione accaparrata da un nuovo potere. È così che la storia fa sempre un passo avanti e uno indietro: un passo avanti nello sviluppo, uno indietro nelle sue contraddizioni.

Vorrei concludere auspicando quello che – riecheggiando il nouveau christianisme socialista di Saint-Simon di due secoli fa – potrei chiamare un nuovo paganesimo, o un nuovo politeismo laico: cioè un pluralismo in cui, credendo ognuno quello che vuole, come per Costantino e Simmaco, nessuno pretenda di imporre all’altro, con la forza del potere, la propria parola come parola di Dio. Che è la vera, anzi la sola “bestemmia contro lo Spirito”: il solo spirito che positivamente conosciamo, quello dell’uomo.

La lotta contro questa imposizione dura da un millennio e mezzo: ma è stata, appunto, una lotta. La storia d’Europa è storia non tanto del cristianesimo, quanto della perenne lotta per la liberazione degli uomini dall’imposizione del cristianesimo come potere “teodosiano” sulle coscienze.

12 novembre 2007

WABI SABI, the sad beauty

(italian text and photos published in the Witness Journal, #5, 2007: Giappone)

There are various ways to travel, and various ways to tell travel stories : from the climbing together with Claude Lévi-Strauss along impervious tracks through a thick forest, in the pursuit of a vanishing culture, to a travel around his own bedchamber by Xavier De Maistre, in an introspective and merciless pursuit of our inner daemons. And, inbetween those two extremes, the bottled and cable-driven travel of the consumer tourists in their organized trips, who tell in blunt photo images the repetitious emotions of those once inaccessible places, today packed in last-minute, all-inclusive catalogs. As far as I am concerned, in a travel I try to find a leitmotiv, that invisible trace that makes any travel, even the most banal and daily transfer, a path. Without any hesitation, between the academic pomp of a Lévi-Strauss, and the "slowness of sight" of a De Maistre, I choose the second one.


When I traveled to Japan for the first time it was because of business. I had to spend a few days in Tsukuba for a scientific conference, therefore I seized the occasion to make an ample detour of about two weeks to Kyoto and Tokyo. Trying to avoid the family-style postcard photos, that are the unavoidable result of clumsy attempts to imitate the "National Geographic" style by people like me, who do not have the necessary technical skills, it was instead a very clear decision to drive my personal, visual and photographic, exploration of a territory already largely explored, narrated, described, painted, photographed, translated into any language of the world. I had started, more or less consciously, the search for that slippery and hard to define, however absolutely evident feature, of the traditional japanese aestethics, the wabi-sabi.

The concept exposed by the two juxtaposed words, wabi and sabi, is not easy to translate. In fact, it draws part of its fascination from the capability of evoking a pluralism of meanings. The very peculiar japanese aesthetics described by those two words is grounded on the acceptation of the transient nature of the world and of all things, as expressed in an imperfect beauty, non-permanent, and incomplete. Wabi connotes a modest and tamed elegance, a rustic simplicity painted of silence and chillness, wabi is the strangeness, the deformation, the defect which adds uniqueness and elegance to an object. Sabi is all the beauty and the serenity of the old age, the patina and wear of the years, the trace of rust, a patch made visible so as not to leave doubts about the fragility of life and things. Wabi-sabi is the sad beauty.

A hagi-ware tea cup, with its only apparently gross and graceless shape, draw its true beauty from the asymmetry, from the rustic style, from the scant and unpaired colours. But upon a closer look, one discovers the careful delicacy of the shape, the absolute perfection of the shining glaze, whose colour changes in time and with the usage. The effect is that of a precious diamond modestly hiding in a raw rock. The imperfection deliberatedly left by the craftsman on the rim is wabi, the darkening and rusting of the glaze produced by the tea is sabi.

Wabi-sabi is not a style, there are no written rules, it is impossible to build a wabi-sabi home, or life. To find the right way is a recipe as simple, as elusive and unattainable : « The perfect Way is without difficulty, Save that it avoids picking and choosing. Only when you stop liking and disliking, Will all be clearly understood. » (Hsin-hsin Ming, by the chinese monk Seng-Tsan, VI century). Rooted in the Zen buddhism, and in principles that remind of the vast and indifferent emptiness of the universe, of the absence of sacred, of an austere life in communion with the nature, of the concentration on the small things and on daily life as a path to the enlightenment, wabigokoro means 'to reach a wabi mind and heart' : live in modesty, learn to be satisfied of your own life by dropping all the unnecessary, live in the moment by removing the obsession for the future. A difficult task under any latitude and culture, one which is almost inacceptable in our western world, slave of the consumer logic, of the sales, of the maximum rentability. We, subjugated to the perfomance anxiety that makes us waste money to have the whitest teeth and to buy the best wines in a supermarket. An ancient text by Sen-no Rikyu, the Nanporoku, says : « It is already enough if your home does not let in the cold, and if your food keeps the hunger away. »

Wabi is also a criticism against the vulgar ostentation of the ruling class. When the wabisuki ("taste for being wabi") did spread in the XVIth century Japan, the word defined the rustic though careful lifestyle of the samurai, who lived their life of warriors devoid of any comfort, but in which there was always the place for a tea ceremony, or for an ikebana floral decoration. Before then, wabi defined something or someone sad, solitary and desolated. In the modern japanese language there is still trace of this negative connotation, when the word wabi is used, e.g., to describe the feeling of helplessness while waiting for a lover who is late at a meeting.

Often, the wabi-sabi is found in the confrontation between the microworld and the daily, macroscopic world. In that wide span of space between the wisdom of the cricket and the unattainable distance of the stars, between a scratch in the paper and the crack in the mountain. For this reason, the photos in this work are presented in couples, trying to evoke the juxtaposition between microscopic and macroscopic, useful and useless, perfect and imperfect, sacred and ordinary. « When people see things as beautiful, ugliness is created. When people see things as good, evil is created. Being and non-being produce each other. Difficult and easy complement each other. Long and short define each other. High and low oppose each other. Fore and aft follow each other. Therefore the Master can act without doing anything and teach without saying a word. » (Tao te-ching, II).
A man carefully rakes the golden leaves of a gingko, in the gardens of the Kinkaku-ji temple in Kyoto, he appreciates all the beauty and the little, golden perfection of his doing, while the precious and fragile millenary building in wood and gold-leaf behind him reflects on the still, icy waters of an autumn morning.
The candid white hands of a girl wrapping rice pancakes, swift as butterflies waving in the clear air of the afternoon, remind of a haiku of rare beauty. Rakka eda ni, kaeru to mireba, kotefu kana. (« A leaf returnign to its branch ? It was just a butterfly. » Moritake Arakida, 1472-1549)



A few old men happily smoking in front of a cart selling fried fish, besides the image of buddhist followers inspiring incense at the entrance of a temple. The double presence is enough to evoke another haiku by Kobayashi Issa (1763-1828), Ka ibushi no makkaza shimo ni hotoke kana, « Downwind from the smudge pot, smokes a Buddha ». Sacred and ordinary, daily and immortal, real and transcendent, fused in resonances and counterpoints, depurated of any possible ethical judgement and moralistic prejudice.


Of course, by looking at modern Japan one may ask whether the traditional wabi-sabi still inspires this people, apparently so fully westernized, and totally devoted to follow and surpass the occidental models. The book by Karl Taro Greenfeld, Speed Tribes, days and nights with Japan’s next generation (Harper Perennial, 1995) tells about a modern Japan whose sons know everything about the Guns n’Roses but nothing about ikebana, and prefer to wrap a joint instead of an origami. « In 1868, Ueno Park staged the last battle opposing the ancient warlords to the restored Meji emperor. After defeating his adversaries, the emperor declared the whole site of Ueno a national preserve, in order to protect the ancient shinto and buddhist temples, and to insure that some free space remained available to people under the impending modernization of the city of Tokyo. Obviously, he could not imagine that the great stairs at the south entrance of the park, next to the statue of the mythical samurai Saigo Takamori, would have turned into the most flourishing drug market of the whole Tokyo. »
To a closer inspection, the problem of westernization against defense of the tradition in japanese culture is anything but a recent issue. Already at the beginning of the XXth century, the writer Tanizaki Jun’ichiro hid behind the light and ironic talk of In’ei rasan ("In praise of shadows", 1933) his sincere regret for the westernization and the inexorable dilution of japanese aesthetic canons. Tanizaki defends, from his point of view, a kind of superiority of the oriental sensibility (the "world of shadows") over the occidental one (the "world of lights"), by reviewing a list of daily objects and tools. He compares the customs of western people to the usage of the same objects by the japanese, and what the same objects could have been if the japanese had not passively accepted the version proposed by the western world.

When you will travel to Japan, sleep on the futon laid on the floor of a traditional ryokan. Take a walk during the fall season along the lanes of a park in Kyoto, among the maples covered by red and yellow leaves. Stop in front of a moss-covered stone lantern. Kneel for a moment in front of the statue of a Jizo buddha decorated with the red bib by an expecting mother. Look at the traditional furniture in a home or a restaurant. Try the touch of the rough and random surface of a raku pottery. In all these actions, it will be unavoidable to perceive that timeless and unspeakable "japanese style".
But we should not exclude a priori that the wabi-sabi taste for the "sad beauty" of the aging things, which reminds us, not without tenderness, of our human condition, could have parallels in some western sensibility. For example, furniture in western homes is more and more inclined towards a minimalism of the shapes and decorations, in which the man and not the machine is being celebrated. Again, modern architecture, since Frank Lloyd Wright and on, has drawn continuous inspiration from the pure essentiality of the japanese shapes ; as the architect Franca Bossalino says, the ideal of the imperfection of matter and the mutability of the form could become an aesthetic objective per se, independently of the requirements of functionality and usefulness customarily at the basis of the design.
We too, the westerners, may grow a feeling for an old tool that reminds us of our origins, or for some useless tinplate toys, resurfacing straight from our infancy. Something like the saudade of the portuguese or the old-german sehnsucht, and even more than that. How many among us could say to have never experienced a feeling of affection, like your heart being full with nostalgia, while rambling through a flea market and holding in the hands an old can opener, still bearing the discouloured labels of some disappeared factory, or the wrecked and dusty cars of a toy freight-train ? Such a feeling is certainly close to the japanese sabi.

And even if, for us western people, it will be always difficult to understand the idea of spending three or four hours kneeling down, to take part in a ritual during which a silent master draws a few ancient and careful moves just to serve a few cups of tea, the spirit that lives behind that ceremony should be perfectly reachable. Because every meeting with a friend is a unique occasion. Because we never know what could happen tomorrow, or later tonight. Interrupting our activity, no matter how important, to greet a friend, to share a conversation, is a chance to find a moment of peace, harmony and love. It is in such moments that the wabi-sabi spirit surfaces. By following the cha no yu, the tea ceremony, one learns to handle every single tool, as simple as it can be, as if it were a precious object, with the same respect and care we would use for a rare antique.
The "sad beauty" teaches us to give back their value to the little, daily things. Maybe, thanks to the intermediation of a small crack in a teapot, or the contemplation of an old wooden table with its surface polished by the years, we could find within ourselves those much needed spaces of shadowy, quiet humanity.


25 dicembre 2006

Ritorno ad Aristotele /4. Il romanticismo della matematica

Aggiungo un altro pezzo di carne al fuoco del mio caminetto aristotelico. Lo faccio un po' a tempo perso, nel giorno del Natale cattolico, mentre intorno a me c'è chi guarda distrattamente i programmi più o meno natalizi in tv dopo qualche bagordo di troppo intorno alla tavola… a tempo perso, perché non è esattamente quello che ci si aspetta di fare durante il giorno di Natale, scrivere un pezzo di filosofia, e perché manco da troppo tempo dalla Bottega, e non vorrei che i non molti frequentatori finissero per disamorarsi di queste dimesse paginette.
Quindi appongo un contributo, certo incompleto, ma che serve al solo scopo di continuare a tessere il filo, di una trama che un po' alla volta spero diventi un bel vestito nuovo.

Parlavo giorni fa con un caro amico, intellettuale cattolico di vasta cultura, al quale chiedevo, cercando un po' di provocarlo alla discussione: "Ma perché nel dibattito fra mythos e logos, la chiesa cattolica ha optato per il secondo? Non c'è niente di logico nel cattolicesimo, a partire dai miti fondatori (quando ho usato la parola "miti" lui ha fatto una faccia storta :), avrebbero dovuto optare piuttosto per il mito, no? Invece nel cristianesimo il logos compare all'inizio del Vangelo di Giovanni, dov'è identificato con Gesù. Il logos è il tramite con cui dio ha creato il mondo e, incarnato in Gesù Cristo, ne è diventato anche il salvatore."
Si continuava a discutere degli spunti del Vangelo di Giovanni, che trovano in seguito una loro conclusione nella definizione dei due dogmi, quello della trinità e dell'incarnazione di dio, formulati nel Concilio di Nicea. "Il termine logos in ambito cristiano – diceva lui – è tradizionalmente reso in italiano come verbo, riprendendo con un calco il latino verbum. Più correttamente, però, dovrebbe essere reso con parola."
"E' singolare – dicevo io – "che proprio i cristiani abbiano spinto il mythos al margine della riflessione filosofica, in quanto estraneo alle tradizioni della Bibbia, e che proprio loro facciano la confusione fra logos e parola."
"Ma no, invece – risponde lui – è perfettamente nelle intenzioni della Chiesa, evitare le fughe verso interpretazioni eccessivamente mistiche, e cercare invece di restare con i piedi sulla terra. Nonostante le diverse accezioni possibili, il logos fa riferimento soprattutto all'intelligibilità del cosmo, alla possibilità di conoscere ed esporre i princìpi razionali che lo reggono. L'universo per il cristiano deve anzitutto essere intellegibile, luogo di dialogo fra Dio e l'uomo. La persona umana, creata da Dio a sua immagine e somiglianza, è il solo essere abilitato a riconoscere questi significati e a decifrarne l'informazione. Bisogna evitare di cadere nei relativismi e nel misticismo alla Ficino, forsitan in praesentia somniamus, ricordi?" (perché si capisca il "ricordi?" a questo punto devo specificare che il parlante, attuale preside del liceo unificato classico-scientifico-linguistico di T*****, è un mio ex professore di lettere, divenuto poi uno dei miei più cari amici).
E continua: "L'universo diviene pertanto un luogo privilegiato del dialogo fra Dio e l'uomo; a questo dialogo voi scienziati partecipate a pieno titolo, non di rado inconsapevolmente, tutte le volte che riconoscete nella natura un'intelligibilità oggettiva, un logos ut ratio, ma anche un'alterità, un logos ut verbum, che vi attrae verso la ricerca della verità. Dal nostro punto di vista, è il "punto Omega" di Teilhard de Chardin, la massima espressione, la finalità dell'evoluzione."

Finita la nostra chiacchierata davanti a un (più d'uno, in realtà) bicchierino di cognac, ho ripensato a questi bei discorsi, e al bel divertimento di poterli fare e goderne. E al contenuto dei medesimi, ovviamente, e al loro possibile collegamento con il mio interesse di vecchia data con le scienze cognitive, e al mio interesse rinnovato e recente per la filosofia aristotelica, nella particolare accezione di "statuto dei confini" che sto provando a disegnare.

Ho letto da qualche parte (lo ritrovo fra i miei appunti, purtroppo ho perso il link dal quale proveniva) rilievi simili ai miei, circa la credenza cristiana in un Logos creatore, nel senso di aver favorito lo sviluppo di una mentalità scientifica nella quale trova posto una fede nella razionalità del mondo. Sostenendo così la necessità di cercare le radici di un ordine stabile ed universale, convinzione apparentemente condivisa anche da alcuni scienziati. In realtà, mi dicevo, potrebbe trattarsi di un'associazione soltanto funzionale, nel senso che un certo ordine di idee, indipendentemente dal loro fondamento oggettivo, abbia potuto incidentalmente ("storicamente") favorire l'impiego di una gnoseologia maggiormente adeguata all'analisi delle scienze. Ma il porre il Verbum a fondamento del reale, serve a rendere il dialogo fra l'uomo e la natura niente più che una metafora del dialogo fra l'uomo e Dio.
Sempre nei miei appunti, trovo un altro stralcio che recita: "Un possibile riflesso sul dibattito scientifico potrebbe essere ad esempio l'interrogativo circa la "irragionevole efficacia della matematica" (E. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, “Comunications in Pure and Applied Mathematics” 13 (1960), pp. 1-14; J. D. Barrow, Perché il mondo è matematico? Roma-Bari 1992). Sarebbe sempre possibile ipotizzare un universo che non avesse la proprietà di essere così facilmente matematizzabile come il nostro, dove le principali leggi fisiche non posseggano integrali convergenti, non siano rappresentabili con leggi scientifiche semplici, dove la geometria dello spazio, ad esempio, non consenta ai potenziali radiali di decrescere con l'inverso della distanza o alla legge di gravità di essere regolata dall'inverso del suo quadrato. Sebbene la mente umana eserciti una evidente proiezione dei suoi canoni all'interno del mondo fisico, cercando di matematizzarlo, questo deve essere al contempo matematizzabile (corsivo Bostoniano). Esistono ragioni per rifiutare l'idea che sia unicamente lo scienziato ad imporre un simile ordine nella natura. Il linguaggio della razionalità scientifica, della logica come della matematica, non è un idioma totalmente convenzionale, uno fra i tanti possibili. «Le cose stanno in modo esattamente opposto — osserva Polkinghorne — I fisici padroneggiano faticosamente le tecniche matematiche perché l'esperienza ha insegnato loro che esse costituiscono la via migliore, anzi l'unica, per capire il mondo fisico. Scegliamo quel linguaggio perché è l'unico col quale il cosmo ci parla» (Scienza e Fede, 1987, p. 72). Dietro l'idea di un cosmo «capace di parlare» non è difficile intravedere quella di un suo legame costitutivo con una Parola originaria. […] Non desta allora più sorpresa la “comprensibilità” dell'universo — cosa che suscitava la meraviglia di Einstein — e neppure il fatto che le stesse particelle elementari siano tutte rigorosamente identiche. Su quest'ultima meraviglia ferma l’attenzione John Barrow, segnalando che se tutti gli elettroni non fossero assolutamente uguali, e si comportassero ad esempio come dei palloni da football, ciascuno leggermente diverso dall'altro, l'intero universo diventerebbe inintelligibile (cfr. Theories of Everything. The quest for Ultimate Explanation, Oxford 1991, p. 197; da fisico, devo dire che quest'ultima osservazione di Barrow sull'uguaglianza delle particelle è decisamente inintelligibile, nota di Bostonian).

Ecco qua il punto dove il mythos, sbattuto fuori dalla porta, rientra dalla finestra. Con l'idea che la natura, anzi la Natura, porti in sé l'impronta di Dio, manifesta nella Comprensibile Armonia dell'Universo. L'Universo parla in linguaggio matematico, il linguaggio di Dio. Il linguaggio della matematica trascende il corpo e la mente umana, in questa visione che credo di poter definire senza problemi "platonica". In estrema sintesi:
- la matematica è una caratteristica oggettiva e reale dell'universo, le verità matematiche sono universali, assolute e sicure, le verità matematiche sono oggetto di scoperte;
- le credenze degli esseri umani circa la matematica non hanno alcuna influenza sulla matematica stessa, la matematica sarebbe la stessa anche se non esistessero esseri umani, e in altri universi possibilmente diversi da questo;
- i matematici sono gli scienziati di livello più elevato, in una ipotetica gerarchia delle scienze, poiché le verità che scoprono sono valide in qualunque universo possibile e non solo in quello accessibile alla nostra esperienza;
- poiché la logica può essere formalizzata in termini della matematica, la matematica stessa costituisce la vera natura della razionalità, inoltre, poiché la razionalità definisce ciò che è unicamente umano, i matematici sono l'espressione più alta della razionalità;
- la matematica della natura, e in particolare della fisica, risiede nei fenomeni naturali medesimi, come il fatto che i pianeti seguano orbite ellittiche, che i frattali siano annidati nelle forme delle foglie, che i gusci delle chiocciole seguano spirali logaritmiche, il che implica che il libro della Natura è scritto in linguaggio matematico, e che solo chi capisce la matematica possa capire la Natura;
(da G. Lakoff e R. E. Nunez, Where Mathematics Comes FromBasic Books, Perseus, New York, 2000)

Questo è quello che Lakoff e Nunez hanno chiamato "il romanticismo della matematica", che sarebbe più opportuno definire forse "la mitologia della matematica". Come affermano Lakoff e Nunez, due scienziati cognitivi, linguista il primo e psicologo il secondo, nello studio delle scienze cognitive si trova spesso che le evidenze contraddicano le mitologie individuali. Le nostre credenze coscienti su soggetti come tempo, causalità, moralità, politica, sono molto spesso inconsistenti rispetto ai sistemi concettuali inconsci di ciascuno. E non è inusuale per le persone l'adirarsi quando gli viene mostrato come il loro inconscio contraddica le loro credenze più care e radicate, specialmente in aree sensibili come etica, religione, o politica. Qualcosa di analogo si trova anche nella matematica: parlando con dei matematici di professione, è estremamente difficile far passare il concetto di "mitologia della matematica". L'idea diffusa è che di un argomento complesso e specialistico come la matematica possano parlare a ragion veduta solo i professionisti, e che epistemologi, filosofi, psicologi comportamentali, scienziati cognitivi, ma perfino dei quasi-colleghi come i fisici, non possano che avere visioni parziali, schematiche e non professionali. Il "romanticismo della matematica" è parte profonda della loro visione della vita, della loro identità più profonda. E dubito, infatti, che un matematico che leggerà le parole che sto per scrivere, le condividerà.

Infatti, affermo e sostengo (in compagnia di qualcun altro) la radicale estraneità della matematica rispetto alle scienze naturali. La matematica è diversa da tutte le scienze, è totalmente "interna" allo spazio mentale umano, mentre le altre scienze sono "esterne". Le scienze sono costituite dall'analisi di eventi naturali, percepiti dalla mente umana attraverso i sensi di cui dispone, entro gli intervalli di variabilità dei sensori biologici predisposti allo scopo. La matematica è il sistema mentale ("linguaggio") tramite il quale il cervello organizza e analizza le percezioni sensoriali degli eventi naturali. La matematica è il linguaggio più naturale per la formalizzazione del rapporto fra "interno" del corpo ed "esterno" della natura. Per altri rapporti, il cervello preferisce usare altre forme di linguaggio, come quello verbale, musicale, eccetera.
In questo senso, la matematica è un puro prodotto degli esseri umani. Impiega le limitate risorse del cervello umano, e da questi limiti essa è formata, oltre che dai limiti fisici dei nostri corpi. Le parti del sistema cognitivo umano che generano la matematica più avanzata sono le normali capacità adulte, comuni a qualunque essere umano. Come hanno dimostrato da tempo le scienze cognitive, una ristrettissima parte di queste capacità sono innate, hard-wired nel cervello umano, tipicamente la capacità di contare fino a quattro o a cinque. Lo sviluppo ulteriore delle matematiche superiori è costituito grazie ai meccanismi di metafore concettuali e di inferenza logica incorporati nei meccanismi cognitivi del cervello.

A queste idee da (darà?) supporto, a sua totale insaputa e senza alcuna colpa o responsabilità diretta, il fantasma augusto di Aristotele lo Stagirita, con il mio/suo statuto dei confini… spero ☺

12 novembre 2006

Ritorno ad Aristotele /3. La biologia dell'anima

Mi rendo conto che il tono dell'ultimo contributo era piuttosto teorico, e quindi di lettura impervia e noiosa, anche se conteneva una serie di elementi necessari a sostegno di quello che vorrei dire. E mi rendo anche conto che queste mie sono riflessioni piuttosto personali, che finiscono per lasciare poco spazio ad una critica. Però mi farebbe lo stesso molto piacere, se almeno qualcuno degli amici che hanno così attivamente partecipato allo scambio di idee su mythos e logos, potessero venire anche qui a donare i loro preziosi contributi, cercando di trasformare il quasi-monologo della Bottega in un più animato dialogo. (Per quanto, la ristretta compagnia che mi ha seguito fin qui abbia già regalato penetranti ed appropriati interventi.)

Uno degli obiettivi di questa mia riflessione, per quanto disordinata e incompleta, è di proporre una tesi, neanche troppo innovativa a ben vedere, secondo cui l'attività scientifica è il necessario prodotto del cervello umano, e più precisamente della mente.
L'attività in questione è connessa all'impiego della matematica, la quale non è una scienza, ma è una delle forme di linguaggio proprie del cervello umano, cioè puro prodotto della mente e non-esistente al di fuori di essa, al pari del linguaggio verbale o musicale (più adatti ad altre attività umane che non all'elaborazione scientifica).
L'attività scientifica consiste nella trasformazione ed organizzazione di qualsiasi sensazione attraversi il confine esterno-interno del nostro corpo vivente. Non abbiamo alternative in questo. Ogni volta che riceviamo uno stimolo visuale o uditivo, ogni volta che attraversiamo la strada, ogni volta che confrontiamo fra loro due forme geometriche cercando una sfera in una mela, ogni volta che proviamo l'impulso di dare un bacio ad un volto amato, si mettono in moto all'interno dell'involucro vitale catene di reazioni chimiche, governate dalla risposta del cervello a stimoli esterni che hanno varcato la frontiera. Sia gli stimoli che le risposte vengono trattati dalla mente secondo un codice che riflette necessariamente la struttura elaborante della mente stessa. Oltre a configurarsi come processi "usa-e-getta", alcune di queste catene stimolo-risposta (anche comprendenti più livelli di "andata e ritorno" fra l'interno e l'esterno) possono venire formalizzate dalla mente, per finire immagazzinate nella memoria. Nel sistema dell'organizzazione percettiva il linguaggio mentale di elezione in cui questo avviene è la matematica, mentre per altri tipi di processi può essere, ad esempio, il linguaggio verbale o musicale. In ogni caso, si tratta di linguaggi scolpiti nella struttura del cervello umano. La musica, la parola, le scienze, esistono solo dentro la nostra mente.

Spero di riuscire a chiarire questo blocco di concetti in maniera più approfondita nei prossimi interventi. In questo post vorrei però insistere sul contributo di ispirazione che il pensiero aristotelico fornisce alla mia tesi. In particolare, sul fatto che le idee scientifiche di Aristotele - che nel mondo moderno, sia dentro che fuori l'ambiente accademico, sono state considerate un relitto di un modo primitivo e addirittura "infantile" di fare scienza - vadano invece considerate come il prodotto di una indagine estremamente raffinata, non tanto e non solo sugli oggetti della scienza in sé, quanto sul rapporto fra essere umano e mondo circostante. Mostrando che la scienza non è altro che questo, ossia un'altra forma di espressione poetica.
Questa accezione del pensiero aristotelico è quella che stimola molte delle mie riflessioni, ovvero che non si possa dare lo studio di una realtà esterna indipendente dalla attività (volontà?) del soggetto che la osserva. Che questo continuo gioco di proiezione del mondo esterno in ειδος, immagini mentali interne, attraversando i confini del corpo e disegnando nuovi confini nella geometria della mente, e che da queste immagini, con un procedimento matematico, la mente astrae forme organizzate, sia l'unica forma di accesso al mondo esterno che ci è concessa. Si riparte dal tomistico nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, per degli esiti che sorpassano l'empirismo (schivando a piedi pari le tentazioni immaterialiste di Berkeley) ed arrivare alle moderne neuroscienze. La nostra visione della realtà è il risultato della percezione e dell'organizzazione strutturale della nostra mente. In breve, siamo costretti a vedere il mondo sempre da dietro i nostri occhi. Non potremo mai uscire dal nostro corpo verso una realtà oggettiva. Non potremo mai introdurre il nostro cervello dietro gli occhi di qualcun altro, per avere la sua stessa percezione della sua propria realtà. E questo indipendentemente dal valore che si vuole assegnare alla realtà, materiale o ideale.

Aristotele nasce a Stagira, nel nord della Grecia, figlio di Nicomaco che era medico di corte della famiglia reale di Macedonia. Per questo i suoi primi studi furono in medicina, finché nel 367, diciassettenne, fu mandato ad Atene per studiare filosofia con Platone. Rimase per una ventina d'anni nell'Accademia ma, sebbene fosse l'allievo probabilmente più brillante di tutti, aveva nel tempo sviluppato una precisa opposizione a molti degli insegnamenti di Platone, tanto che non fu nominato alla testa dell'Accademia quando Platone morì. Per questo Aristotele lasciò Atene e viaggiò per circa dieci anni, principalmente in Asia Minore. Possiamo supporre che i suoi studi di biologia datino a questo periodo. Nel 338 tornò in Macedonia, per diventare istitutore di Alessandro Magno. Quando il suo giovane discepolo conquistò Atene, Aristotele vi tornò e creò la sua propria scuola, nota come Liceo. Aristotele rimase ad Atene fino a poco dopo la morte di Alessandro quando, in seguito alle sollevazioni popolari contro i macedoni invasori, la sua posizione sociale divenne sempre più critica fino a rischiare la pena capitale. Fu così costretto a ritirarsi nella penisola di Eubea, lontano da Atene, dove infine morì nel 322.

E' difficile sintetizzare in breve il contributo di Aristotele alle scienze dell'antichità, ma credo che per alcuni lettori della Bottega risulterà sorprendente scoprire quanto e con quanta competenza e profondità Aristotele fosse uno scienziato empirico, prima ancora che un filosofo. E' una delle grandi ironie della storia che gli scritti e le idee di Aristotele, basati il larghissima parte sulla osservazione e sulla manipolazione diretta, vennero usati nel Medio Evo e oltre proprio per ostacolare e impedire lo sviluppo formale delle scienze, dopo che la Scolastica aveva amalgamato il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana.
Aristotele, primo degli empiristi, classificò gli oggetti fisici che secondo lui costituivano la realtà accessibile con la sola esperienza. Tutti gli oggetti, compresi gli organismi (è lui ad aver inventato sia la parola, sia il concetto di organismo come insieme di elementi aggregati per svolgere una funzione ben definita) sono composti di potenza e atto, materia e forma. Un blocco di marmo ha in sé la potenza di assumere qualunque forma lo scultore gli dia; un seme o un embrione ha la potenza di crescere nella forma animale o vegetale finale. Nelle creature viventi egli identificava la forma con l'anima: le piante hanno un'anima di genere inferiore, gli animali di genere superiore e possono "sentire", gli umani sono i soli ad avere anima razionale. Sottolineo ancora come, in termini moderni, la migliore identificazione dell'anima aristotelica sia con la definizione materialista-funzionalista della mente che si dà in neurofisiologia ("non è possibile un cambiamento di stato mentale senza un cambiamento di stato cerebrale"), anche se le piante rientrano solo parzialmente in questa descrizione, limitatamente alla sfera sensibile. Va infatti ricordato che secondo Aristotele l'anima è una parte sensibile (ψυκη) e una parte intellettiva (νους). (Una identificazione dell'anima, ad esempio, con il codice genetico o DNA sarebbe concettualmente possibile, ma la distanza fra il genotipo e il fenotipo di un individuo è troppo vasta per renderla praticamente plausibile.)

Gli animali venivano da lui classificati secondo la loro forma di vita (la moderna tassonomia), le loro azioni (etologia) e, più fondamentalmente, in base alle loro parti (anatomia). Sebbene il lavoro di Aristotele in zoologia non sia privo di errori rispetto alle conoscenze moderne, la sua fu la più grande sintesi del suo tempo e rimase l'autorità nel campo per secoli dopo la sua morte. Le sue osservazioni sull'anatomia del polpo, della seppia, dei crostacei e di altri invertebrati marini sono eccezionalmente accurate, e poterono essere state formulate solo a valle di esperienze di dissezione anatomica. Egli descrisse lo sviluppo embrionale dei polli, distinse balene e delfini dai pesci, descrisse lo stomaco compartimentato dei ruminanti e l'organizzazione sociale delle api, notò che alcuni pescecani mettono al mondo la prole già viva. I suoi libri sugli animali sono pieni di accurate osservazioni, alcune delle quali vennero confermate sperimentalmente solo molti secoli più tardi.
La sua classificazione raggruppa in generi (termine che ha un senso molto più ampio di quello moderno) gli animali con caratteri simili, e distingue diverse specie all'interno di ciascun genere. Divide gli animali in due tipi, quelli con sangue e quelli senza sangue (almeno basandosi sulla presenza di sangue rosso), una distinzione che corrisponde molto da vicino a quella moderna fra vertebrati e invertebrati. Gli animali con il sangue (vertebrati) erano classificati in cinque generi: quadrupedi vivipari (cioè i mammiferi), uccelli, quadrupedi ovipari (rettili e anfibi), pesci, balene (che egli non comprese fra i mammiferi, mentre vi incluse invece i delfini nei quali scoperse la presenza della placenta: è notevole che su questo punto Aristotele fu screditato dai suoi successori, e i delfini vennero correttamente inclusi fra i mammiferi solo dalla scienza moderna, oltre duemila anni dopo). Gli animali senza sangue erano invece classificati in cefalopodi, crostacei, insetti (genere che includeva anche ragni, scorpioni e anellidi), animali con la conchiglia (compresi molluschi ed echinodermi), e zoofiti o animali-piante, come gli cnidari che agli occhi di Aristotele somigliavano a piante.
L'amore per la classificazione ed il raggruppamento in generi simili lo condusse inevitabilmente a formulare una gerarchia concatenata del cambiamento progressivo nelle forme delle specie animali, una sorta di embrione di teoria evoluzionista in cui era affiancato anche da altri pensatori dell'epoca. Peraltro, la fantasia e l'intuito lo portarono in alcuni casi in dei vicoli ciechi, come l'aver attribuito al cuore la sede delle funzioni vitali considerando il cervello solo come un organo per raffreddare il sangue. Suppongo che per capire almeno qualitativamente la funzionalità cerebrale, egli avrebbe dovuto poter effettuare esperimenti di dissezione su animali vivi.
Come si dirà più avanti, parlando della fisica, Aristotele non fu uno sperimentatore nel senso proprio del termine, quanto piuttosto un acutissimo osservatore della natura. Infatti, egli non mise mai in opera un vero e proprio apparato sperimentale destinato a provare o disprovare un'ipotesi, ma spinse la sua osservazione quanto più nel profondo gli fu possibile.

Il pensiero aristotelico sulle scienze della Terra si ritrova nel suo trattato sulla Meteorologia, un termine anche in questo caso assai più ampio del significato moderno, comprendente "tutti i fenomeni comuni ad aria ed acqua, e i generi e le parti della terra, e i fenomeni delle sue parti". In questo scritto egli discute la natura della terra emersa e degli oceani, e descrive fra l'altro il ciclo idrogeologico in termini eccezionalmente moderni: "Perché il sole, nel suo movimento, mette in moto processi di cambiamento, e divenire, e decadimento, e per la sua azione l'acqua dolce e pura ogni giorno viene portata in aria e dissolta in vapore, e sale così nelle regioni più alte dove si condensa nuovamente per il freddo, e in questo modo ritorna sulla terra". Nello stesso testo egli discute di venti e terremoti (che credeva causati da venti sotterranei), tuoni, fulmini, arcobaleni, meteore, comete e la Via Lattea (che raggruppa tutti sotto la categoria dei fenomeni atmosferici).
Inoltre, la sua visione della storia del pianeta contiene alcune idee parimenti di grande modernità: "Le varie parti della terra non sono sempre state asciutte o secche, ma cambiano, al mutare dei fiumi che scorrono e si prosciugano. E allo stesso modo la relazione fra terra e mare cambia, e laddove c'era terraferma arriva il mare, e dove adesso c'è il mare un giorno vi sarà terraferma. Ma dobbiamo supporre che questi cambiamenti seguano un certo ordine e un certo ciclo. Il principio e la causa di questi mutamenti è che lo stesso interno della terra si sviluppa e decade, come il corpo delle piante e degli animali […] Ma l'intero processo vitale della terra accade gradualmente e in periodi di tempo cosi immensi al confronto della durata della nostra vita, che tali cambiamenti non possono essere osservati e, prima che il loro decorso possa essere documentato dall'inizio alla fine, intere nazioni periscono e sono distrutte."

L'osservazione di Aristotele secondo cui la natura circolare dei moti celesti è prova della limitatezza spaziale dell'universo è molto più profonda di quanto non possa apparire. Essa contiene infatti l'intuizione di un principio di conservazione (quello che in termini moderni chiamiamo momento angolare dell'universo) che suona di fisica molto moderna. Bisogna fare attenzione, nella discussione del pensiero aristotelico, a mantenere distinte le sue affermazioni basate su almeno un elemento osservativo, da quelle basate sulla pura speculazione. E anche fra le osservazioni, sue e dei suoi contemporanei, bisogna tenere conto delle limitate capacità sperimentali dell'epoca, ad esempio l'incapacità di misurare con sufficiente accuratezza gli intervalli di tempo (bisognerà aspettare il Settecento e Christian Huygens per un salto di qualità). Ad esempio, uno degli elementi addotti da Aristotele per provare l'eternità dell'universo era la costanza della velocità del moto delle stelle (nella sua formulazione, del moto dell'etere). Oggi sappiamo che l'universo nella sua globalità sta rallentando, e questa è una delle importanti prove a supporto della teoria del Big Bang, ma tale rallentamento non è misurabile che con strumenti ecezionalmente raffinati.
La credenza aristotelica in un universo senza inizio e senza fine lo porrebbe di diritto fra i precursori della teoria dell'universo stazionario, (ri)formulata negli anni '30 dai cosmologi inglesi Hermann Bondi e Roger Hoyle, e sconfessata alla fine degli anni '60 dalla scoperta della radiazione cosmica di fondo, presunto residuo del Big Bang. O forse meglio, della teoria dell'universo in equilibrio di Einstein, la soluzione delle equazioni relativistiche con costante cosmologica non nulla che venne messa sostanzialmente in crisi dall'evidenza dell'espansione dell'universo (Einstein dichiarò in proposito che questa fu la sua più grave svista). Questa visione, pur discutibile ma senz'altro originale e moderna, spinse però Aristotele ad una interpretazione necessariamente ciclica dei fenomeni, per garantire la condizione di stazionarietà come realtà immutabile. Mentre questo era necessario per Aristotele, da una parte per evitare i paradossi logici della scuola eleatica, e dall'altra per uniformarsi alla sua visione strettamente teleologica della natura, tale richiesta agli occhi moderni non è obbligatoria per garantire una possibile soluzione stazionaria o di equilibrio per un modello di universo basato sulla relatività generale. Per noi oggi è plausibile un universo "aperto" e un tempo senza fine, pur se in continua evoluzione e cambiamento (si potrebbe leggere ad esempio il bell'articolo divulgativo di Freeman J. Dyson "Time without end: physics and biology in an open universe", in Reviews of Modern Physics del 1979). Sebbene la differenza fondamentale fra aristotelismo e le moderne teorie dell'universo, in espansione e "inflazionario", sia la presenza di una singolarità iniziale, o Big Bang, a partire alla quale emerge il tessuto dello spazio-tempo relativistico, credo di aver ragione a sospettare che se Aristotele fosse vissuto oggi avrebbe forse apprezzato una tale possibilità, eternità nel mutamento, poiché l'assenza di un limite finale al tempo fa sì che tutte le possibilità siano in realtà compresenti fra potenza e atto, e quindi immutabili, anche se noi possiamo percepirle come in apparente, continuo mutamento.

Personalmente, gli aspetti del pensiero scientifico di Aristotele che mi lasciano più freddo sono proprio quelli che dovrebbero apparire più falsamente moderni, negli attuali tempi di magra del riduzionismo in favore di una variegata pattuglia di approcci olistici. Si, la teoria dell'organicità dell'universo, l'identificazione dualistica di microcosmo e macrocosmo, che sembrano tanto prossimi alle visioni parascientifiche di un certo ecologismo che arriva fino a Bateson & C. Ma delle conclusioni a tratti paradossali della fisica aristotelica, del non-ruolo della matematica nel suo pensiero (importanza delle assenze, a volte), e della sua visione finalistica dell'universo come organismo vivente (ci risiamo con l'Ipotesi Gaia degli ecologisti alla Ray Lovelock?) parlerò una prossima volta…

04 novembre 2006

Ritorno ad Aristotele /2. Le geometrie della mente

Questa seconda puntata del discorso su Aristotele cerca, e non so con quale successo possibile, di elaborare ulteriormente il concetto di statuto dei confini, partendo dalla teoria aristotelica dei luoghi e muovendomi fra matematica, fisica e neurofisiologia, nella direzione di costituire una base per l'analisi della percezione umana (in generale, animale) del mondo esterno, propriamente definito, e successivamente per la discussione delle attività di indagine scientifica in termini di operazioni mentali.

Aristotele non ha inventato la parola luogo, τóπος, l'ha trovata già esistente nella lingua greca con il suo senso di luogo, posto fisico. Se si esaminano gli utilizzi moderni della parola luogo, posto, ci si rende conto che essi richiedono generalmente l'associazione ad un abitante che ne faccia la sua residenza. E' raro che usiamo la parola luogo con un genitivo inanimato. Esempi. Il luogo di una roccia? Il luogo di una casa? Nella connotazione filosofica, la parola luogo porta con sé un significato esistenziale, mentre per indicare la collocazione geometrica nello spazio si impiega piuttosto la parola posto o sito e i loro costrutti derivati, come postazione, insito, situato.

Nell'ipotesi, certo tutta da discutere, che la parola luogo implichi un essere che vi soggiorni, chiamiamo questo essere il Signore del luogo, sia esso umano o animale. Ogni animale forgia un luogo per le sue attività. Ogni essere vivente è il centro di un dominio geometrico tridimensionale, il suo τóπος, dove pratica le sue attività riproduttive, di caccia, etc. Un tale dominio è un volume dotato di un baricentro, dal quale il Signore emette ramificazioni vitali e familiari. L'importante è sottolineare che un tale dominio geometrico esiste esclusivamente nella mente del suo Signore. Le incursioni, o piuttosto le escursioni esterne sono limitate da confini, oggetti fissi che ne delimitano le estremità, gli εσχατα di Aristotele, (τω δε τι κεξωρισμενον, cio che è separato) che l'individuo per sue proprie scelte vitali e culturali non vuole superare (confini che sono ovviamente variabili nel tempo). In maniera semplificata, possiamo dire che Aristotele immagina che ogni essere vivente sia dotato di questo suo territorio mentale, proiezione interiore dello spazio esterno nel quale l'essere si colloca. Quello che vorrei analizzare è come questo territorio mentale si correla al territorio fisico nel quale l'essere vivente è immerso.

Inizialmente, attribuiamo a questo essere una mobilità all'interno di questo dominio (nella matematica della topologia, si dice un insieme aperto connesso) dell'ordinario spazio euclideo. L'esigenza per un luogo di avere degli εσχατα è una proprietà locale che caratterizza l'essere, l'ουσια. Il luogo è definito dalla sua frontiera esterna. Ma quel che dovrebbe risultare soprendente è che questa proprietà locale è in realtà costituita come una doppia frontiera. In termini di geometria topologica, è un inviluppo convesso che sostituisce il luogo degli estremi. Questa è la natura stessa della nozione di bordo topologico, di frontiera.

Con Parmenide appare per la prima volta il concetto di συνεκησις , usualmente tradotto con il termine continuo (riferito alla continuità dello spazio). Traduzione parzialmente fuorviante, secondo René Thom (autore del noto saggio su Aristotele come "primo topologo della storia della matematica" che ispira queste mie riflessioni), che sottolinea come la sunékesis, ciò che fluisce insieme, evochi piuttosto il concetto di dominio continuamente connesso (cioè senza interruzioni) come il tracciare un perimetro di un oggetto senza staccare la penna dal foglio. Come farebbero dei navigatori, che possono verificare la connessione geometrica di un'isola compiendone il periplo. Nei fatti, all'epoca del tardo Platone e di Aristotele, i geometri manifestavano una certa ripugnanza all'idea che due punti fossero coincidenti, nozione per la quale non disponevano neanche di un termine adatto. Più tardi però, all'epoca di Euclide, non si esiterà davanti all'operazione concettuale di far scivolare due figure geometriche nello spazio, per portarle a coincidere e verificarne l'equivalenza, ad esempio facendo muovere idealmente una squadra su una riga (il verbo επιαρμωζειν indica in Euclide questa operazione). Thom nota che ad una lettura immediata della formula Εν ταυτωι γαρ τα εσχατα του περιεξοντος και του περιεξομενου (che per quel po' che mi ricordo di greco tradurrei all'ingrosso come sono insieme i bordi del perimetro soprastante e del perimetro soggiacente) sembra che Aristotele pensi ad una identità dei confini, laddove l'avverbio ταυτωι è usato invece nel senso di prossimità, quella che oggi chiameremmo identità interna di due insiemi.

Questo discorso ci porta ad approfondire l'idea di coincidenza di due punti, come designato nell'enigmatica affermazione aristotelica: "l'entelechia genera separazione". Consideriamo una retta infinita alle due estremità. Se poniamo un punto origine O su questa retta, l'entelechia del taglio operato con la scelta arbitraria dell'origine, genera due semi-metà per qualsiasi segmento A-B che attraversi l'origine, e per la retta stessa. I punti di incontro dei due semi-segmenti, A-X e X'-B, sono distinti, X e X', pur se coincidenti. Come nel caso delle due figure geometriche traslate fino a farne coincidere il perimetro, i confini sono coincidenti ma distinti.

Questa teoria aristotelica del luogo ha sofferto storicamente di una profonda ambiguità interpretativa, definito addirittura il locus horribilis dell'aristotelismo, considerato come un monolito desueto delle concezioni più primitive rimproverate al maestro di Stagira. Ambiguità del trattarsi di una teoria di ispirazione strettamente geometrica nel senso moderno del termine o, al contrario, di una teoria fondata sull'etologia, cioè sull'occupazione dello spazio da parte dell'essere vivente? Il secondo punto di vista sembrerebbe più pertinente alla tradizione "biologistica" di Aristotele, e ne farebbe il cardine di uno dei problemi centrali dell'etologia moderna: come fa un animale ad organizzare il proprio spazio vitale entro un certo territorio? Ad esempio, gli uccelli hanno la barriera naturale del nido, che costituisce un elemento fondamentale nell'educazione della prole, oggetto di numerosi studi etologici.
Esiste negli animali una attività di proiezione degli eschata interiori sugli eschata esteriori, i confini del territorio che riproducono la mappa dei confini dell'anima, che si determina simultaneamente, nel corso degli spostamenti del Signore del luogo nell'ambito del suo territorio. Un costruirsi continuo di spazi mentali legati al passaggio nei luoghi fisici, che vengono a coincidere pur rimanendo distinti, che è anche una mappatura esterna del proprio universo interiore. La struttura ενταυτα, coincidente, degli εσχατα esterni sugli εσχατα interni. Un doppio bordo, vuoto, che ha sempre secondo Thom una analogia nella formulazione matematica del bordo topologico per due insiemi coincidenti, d⊗d'=0, un luogo-non-luogo, una coincidenza priva di dimensione.

E' necessaria questa identificazione bidirezionale della coincidenza senza identità tra confini esterni ed interni, o è solo un nuovo artificio linguistico privo di alcuna sostanza?
Pensiamo ad un organo che atraverso la frontiera del corpo metta in contatto il mondo esterno (la rappresentazione che ne fa il cervello) e il mondo interno proiettato nelle immagini mentali, ad esempio l'occhio. La visione di un oggetto esterno va a costruire una immagine virtuale sulla retina, una forma delimitata da un confine. Questo confine si proietta all'interno della mente come un bordo reale, niente affatto virtuale: alcuni recettori della retina percepiscono il pieno, altri il vuoto, e il cervello identifica la regione di transizione tra pieno e vuoto con una sequenza di segnali di attivo/disattivo nei recettori. Questo bordo si propaga all'indietro in cascata, fino alla corteccia visiva, dove viene mappato topologicamente invariato (con distorsioni geometriche, senza dubbio, ma conservando le proprietà di connessione e le relazioni dimensionali) nei neuroni del nucleo percettivo visuale. Questa mi sembra una plausibile interpretazione moderna della descrizione aristotelica del processo percettivo, con l'unione di sensazione e forma nella generazione dell'ειδος, l'immagine impressa nell'anima, che in termini moderni è ovviamente da identificarsi con la definizione di mente che si dà in neuroscienze.
La percezione è il risultato di un processo di impressione di forme mentali ricavate dall'esterno attraverso l'interazione con i confini del corpo e, all'inverso, di proiezione dei confini mentali sugli oggetti esterni riconoscendo gli elementi del τóπος, dell'ambito vitale, del luogo.

Il rigetto aristotelico della teoria platonica delle forme, presentato nella "Etica Nicomachea", è spiegato in questa raffinata analisi del processo percettivo, cosi tanto prossima alle concezioni della neurofisiologia moderna. Secondo Aristotele, l'errore di Platone era l'assunzione che, poiché la mente può separare un oggetto e la sua forma astratta, entrambi debbano esistere separatamente (e come sappiamo, Platone arriva poi ad attribuire realtà alle sole forme astratte). Aristotele invece afferma, con grande modernità, che la mente umana è naturalmente capace di svolgere il pensiero astratto, e il fatto che una persona sia capace di astrarre nella sua immagine mentale la forma dall'oggetto che la genera, non necessariamente significa che la forma abbia una esistenza propria. La forma, in conclusione, è una pura immagine mentale, propria del processo percettivo di ogni essere, umano o animale, non intrinseca all'oggetto.

Questa analisi, per quanto solo agli inizi, ancora abbozzata e primitiva, del tutto incompleta e criticabile, e tutto quel che si vuole, fa uscire, secondo me, la teoria dei luoghi di Aristotele dal suo stato di locus horribilis philosophiae alla funzione di uno statuto dei confini.
Ovvero, la definizione della sensitività percettiva attraverso la specificazione dei confini: primo, il confine tra interno ed esterno del corpo, tra ciò che accade all'interno dell'involucro vitale e ciò che accade al suo esterno; secondo, il confine che delimita e definisce le sostanze del mondo esterno, espresso geometricamente come perimetro o superficie, e temporalmente come intervallo fra inizio e fine; terzo, il confine che rappresenta le immagini mentali delle sostanze esterne, sovrapponibile idealmente alle sostanze reali nel processo di riconoscimento formale, possibilmente coincidente con quelle, ma sempre distinto, artefice della "doppia frontiera" evanescente di dimensione nulla che caratterizza la metodologia della rappresentazione.

Si potrebbe forse obiettare che Aristotele in queste mie elucubrazioni sembra più essere usato come una scusa metodologica, che non come vero soggetto di riflessione filosofica. Forse. Ma l'avevo detto dall'inizio. E cionondimeno, lo statuto dei confini servirà a correlare l'attività di rappresentazione mentale con l'attività scientifica… ma anche linguistica, o musicale.