12 novembre 2006

Ritorno ad Aristotele /3. La biologia dell'anima

Mi rendo conto che il tono dell'ultimo contributo era piuttosto teorico, e quindi di lettura impervia e noiosa, anche se conteneva una serie di elementi necessari a sostegno di quello che vorrei dire. E mi rendo anche conto che queste mie sono riflessioni piuttosto personali, che finiscono per lasciare poco spazio ad una critica. Però mi farebbe lo stesso molto piacere, se almeno qualcuno degli amici che hanno così attivamente partecipato allo scambio di idee su mythos e logos, potessero venire anche qui a donare i loro preziosi contributi, cercando di trasformare il quasi-monologo della Bottega in un più animato dialogo. (Per quanto, la ristretta compagnia che mi ha seguito fin qui abbia già regalato penetranti ed appropriati interventi.)

Uno degli obiettivi di questa mia riflessione, per quanto disordinata e incompleta, è di proporre una tesi, neanche troppo innovativa a ben vedere, secondo cui l'attività scientifica è il necessario prodotto del cervello umano, e più precisamente della mente.
L'attività in questione è connessa all'impiego della matematica, la quale non è una scienza, ma è una delle forme di linguaggio proprie del cervello umano, cioè puro prodotto della mente e non-esistente al di fuori di essa, al pari del linguaggio verbale o musicale (più adatti ad altre attività umane che non all'elaborazione scientifica).
L'attività scientifica consiste nella trasformazione ed organizzazione di qualsiasi sensazione attraversi il confine esterno-interno del nostro corpo vivente. Non abbiamo alternative in questo. Ogni volta che riceviamo uno stimolo visuale o uditivo, ogni volta che attraversiamo la strada, ogni volta che confrontiamo fra loro due forme geometriche cercando una sfera in una mela, ogni volta che proviamo l'impulso di dare un bacio ad un volto amato, si mettono in moto all'interno dell'involucro vitale catene di reazioni chimiche, governate dalla risposta del cervello a stimoli esterni che hanno varcato la frontiera. Sia gli stimoli che le risposte vengono trattati dalla mente secondo un codice che riflette necessariamente la struttura elaborante della mente stessa. Oltre a configurarsi come processi "usa-e-getta", alcune di queste catene stimolo-risposta (anche comprendenti più livelli di "andata e ritorno" fra l'interno e l'esterno) possono venire formalizzate dalla mente, per finire immagazzinate nella memoria. Nel sistema dell'organizzazione percettiva il linguaggio mentale di elezione in cui questo avviene è la matematica, mentre per altri tipi di processi può essere, ad esempio, il linguaggio verbale o musicale. In ogni caso, si tratta di linguaggi scolpiti nella struttura del cervello umano. La musica, la parola, le scienze, esistono solo dentro la nostra mente.

Spero di riuscire a chiarire questo blocco di concetti in maniera più approfondita nei prossimi interventi. In questo post vorrei però insistere sul contributo di ispirazione che il pensiero aristotelico fornisce alla mia tesi. In particolare, sul fatto che le idee scientifiche di Aristotele - che nel mondo moderno, sia dentro che fuori l'ambiente accademico, sono state considerate un relitto di un modo primitivo e addirittura "infantile" di fare scienza - vadano invece considerate come il prodotto di una indagine estremamente raffinata, non tanto e non solo sugli oggetti della scienza in sé, quanto sul rapporto fra essere umano e mondo circostante. Mostrando che la scienza non è altro che questo, ossia un'altra forma di espressione poetica.
Questa accezione del pensiero aristotelico è quella che stimola molte delle mie riflessioni, ovvero che non si possa dare lo studio di una realtà esterna indipendente dalla attività (volontà?) del soggetto che la osserva. Che questo continuo gioco di proiezione del mondo esterno in ειδος, immagini mentali interne, attraversando i confini del corpo e disegnando nuovi confini nella geometria della mente, e che da queste immagini, con un procedimento matematico, la mente astrae forme organizzate, sia l'unica forma di accesso al mondo esterno che ci è concessa. Si riparte dal tomistico nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, per degli esiti che sorpassano l'empirismo (schivando a piedi pari le tentazioni immaterialiste di Berkeley) ed arrivare alle moderne neuroscienze. La nostra visione della realtà è il risultato della percezione e dell'organizzazione strutturale della nostra mente. In breve, siamo costretti a vedere il mondo sempre da dietro i nostri occhi. Non potremo mai uscire dal nostro corpo verso una realtà oggettiva. Non potremo mai introdurre il nostro cervello dietro gli occhi di qualcun altro, per avere la sua stessa percezione della sua propria realtà. E questo indipendentemente dal valore che si vuole assegnare alla realtà, materiale o ideale.

Aristotele nasce a Stagira, nel nord della Grecia, figlio di Nicomaco che era medico di corte della famiglia reale di Macedonia. Per questo i suoi primi studi furono in medicina, finché nel 367, diciassettenne, fu mandato ad Atene per studiare filosofia con Platone. Rimase per una ventina d'anni nell'Accademia ma, sebbene fosse l'allievo probabilmente più brillante di tutti, aveva nel tempo sviluppato una precisa opposizione a molti degli insegnamenti di Platone, tanto che non fu nominato alla testa dell'Accademia quando Platone morì. Per questo Aristotele lasciò Atene e viaggiò per circa dieci anni, principalmente in Asia Minore. Possiamo supporre che i suoi studi di biologia datino a questo periodo. Nel 338 tornò in Macedonia, per diventare istitutore di Alessandro Magno. Quando il suo giovane discepolo conquistò Atene, Aristotele vi tornò e creò la sua propria scuola, nota come Liceo. Aristotele rimase ad Atene fino a poco dopo la morte di Alessandro quando, in seguito alle sollevazioni popolari contro i macedoni invasori, la sua posizione sociale divenne sempre più critica fino a rischiare la pena capitale. Fu così costretto a ritirarsi nella penisola di Eubea, lontano da Atene, dove infine morì nel 322.

E' difficile sintetizzare in breve il contributo di Aristotele alle scienze dell'antichità, ma credo che per alcuni lettori della Bottega risulterà sorprendente scoprire quanto e con quanta competenza e profondità Aristotele fosse uno scienziato empirico, prima ancora che un filosofo. E' una delle grandi ironie della storia che gli scritti e le idee di Aristotele, basati il larghissima parte sulla osservazione e sulla manipolazione diretta, vennero usati nel Medio Evo e oltre proprio per ostacolare e impedire lo sviluppo formale delle scienze, dopo che la Scolastica aveva amalgamato il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana.
Aristotele, primo degli empiristi, classificò gli oggetti fisici che secondo lui costituivano la realtà accessibile con la sola esperienza. Tutti gli oggetti, compresi gli organismi (è lui ad aver inventato sia la parola, sia il concetto di organismo come insieme di elementi aggregati per svolgere una funzione ben definita) sono composti di potenza e atto, materia e forma. Un blocco di marmo ha in sé la potenza di assumere qualunque forma lo scultore gli dia; un seme o un embrione ha la potenza di crescere nella forma animale o vegetale finale. Nelle creature viventi egli identificava la forma con l'anima: le piante hanno un'anima di genere inferiore, gli animali di genere superiore e possono "sentire", gli umani sono i soli ad avere anima razionale. Sottolineo ancora come, in termini moderni, la migliore identificazione dell'anima aristotelica sia con la definizione materialista-funzionalista della mente che si dà in neurofisiologia ("non è possibile un cambiamento di stato mentale senza un cambiamento di stato cerebrale"), anche se le piante rientrano solo parzialmente in questa descrizione, limitatamente alla sfera sensibile. Va infatti ricordato che secondo Aristotele l'anima è una parte sensibile (ψυκη) e una parte intellettiva (νους). (Una identificazione dell'anima, ad esempio, con il codice genetico o DNA sarebbe concettualmente possibile, ma la distanza fra il genotipo e il fenotipo di un individuo è troppo vasta per renderla praticamente plausibile.)

Gli animali venivano da lui classificati secondo la loro forma di vita (la moderna tassonomia), le loro azioni (etologia) e, più fondamentalmente, in base alle loro parti (anatomia). Sebbene il lavoro di Aristotele in zoologia non sia privo di errori rispetto alle conoscenze moderne, la sua fu la più grande sintesi del suo tempo e rimase l'autorità nel campo per secoli dopo la sua morte. Le sue osservazioni sull'anatomia del polpo, della seppia, dei crostacei e di altri invertebrati marini sono eccezionalmente accurate, e poterono essere state formulate solo a valle di esperienze di dissezione anatomica. Egli descrisse lo sviluppo embrionale dei polli, distinse balene e delfini dai pesci, descrisse lo stomaco compartimentato dei ruminanti e l'organizzazione sociale delle api, notò che alcuni pescecani mettono al mondo la prole già viva. I suoi libri sugli animali sono pieni di accurate osservazioni, alcune delle quali vennero confermate sperimentalmente solo molti secoli più tardi.
La sua classificazione raggruppa in generi (termine che ha un senso molto più ampio di quello moderno) gli animali con caratteri simili, e distingue diverse specie all'interno di ciascun genere. Divide gli animali in due tipi, quelli con sangue e quelli senza sangue (almeno basandosi sulla presenza di sangue rosso), una distinzione che corrisponde molto da vicino a quella moderna fra vertebrati e invertebrati. Gli animali con il sangue (vertebrati) erano classificati in cinque generi: quadrupedi vivipari (cioè i mammiferi), uccelli, quadrupedi ovipari (rettili e anfibi), pesci, balene (che egli non comprese fra i mammiferi, mentre vi incluse invece i delfini nei quali scoperse la presenza della placenta: è notevole che su questo punto Aristotele fu screditato dai suoi successori, e i delfini vennero correttamente inclusi fra i mammiferi solo dalla scienza moderna, oltre duemila anni dopo). Gli animali senza sangue erano invece classificati in cefalopodi, crostacei, insetti (genere che includeva anche ragni, scorpioni e anellidi), animali con la conchiglia (compresi molluschi ed echinodermi), e zoofiti o animali-piante, come gli cnidari che agli occhi di Aristotele somigliavano a piante.
L'amore per la classificazione ed il raggruppamento in generi simili lo condusse inevitabilmente a formulare una gerarchia concatenata del cambiamento progressivo nelle forme delle specie animali, una sorta di embrione di teoria evoluzionista in cui era affiancato anche da altri pensatori dell'epoca. Peraltro, la fantasia e l'intuito lo portarono in alcuni casi in dei vicoli ciechi, come l'aver attribuito al cuore la sede delle funzioni vitali considerando il cervello solo come un organo per raffreddare il sangue. Suppongo che per capire almeno qualitativamente la funzionalità cerebrale, egli avrebbe dovuto poter effettuare esperimenti di dissezione su animali vivi.
Come si dirà più avanti, parlando della fisica, Aristotele non fu uno sperimentatore nel senso proprio del termine, quanto piuttosto un acutissimo osservatore della natura. Infatti, egli non mise mai in opera un vero e proprio apparato sperimentale destinato a provare o disprovare un'ipotesi, ma spinse la sua osservazione quanto più nel profondo gli fu possibile.

Il pensiero aristotelico sulle scienze della Terra si ritrova nel suo trattato sulla Meteorologia, un termine anche in questo caso assai più ampio del significato moderno, comprendente "tutti i fenomeni comuni ad aria ed acqua, e i generi e le parti della terra, e i fenomeni delle sue parti". In questo scritto egli discute la natura della terra emersa e degli oceani, e descrive fra l'altro il ciclo idrogeologico in termini eccezionalmente moderni: "Perché il sole, nel suo movimento, mette in moto processi di cambiamento, e divenire, e decadimento, e per la sua azione l'acqua dolce e pura ogni giorno viene portata in aria e dissolta in vapore, e sale così nelle regioni più alte dove si condensa nuovamente per il freddo, e in questo modo ritorna sulla terra". Nello stesso testo egli discute di venti e terremoti (che credeva causati da venti sotterranei), tuoni, fulmini, arcobaleni, meteore, comete e la Via Lattea (che raggruppa tutti sotto la categoria dei fenomeni atmosferici).
Inoltre, la sua visione della storia del pianeta contiene alcune idee parimenti di grande modernità: "Le varie parti della terra non sono sempre state asciutte o secche, ma cambiano, al mutare dei fiumi che scorrono e si prosciugano. E allo stesso modo la relazione fra terra e mare cambia, e laddove c'era terraferma arriva il mare, e dove adesso c'è il mare un giorno vi sarà terraferma. Ma dobbiamo supporre che questi cambiamenti seguano un certo ordine e un certo ciclo. Il principio e la causa di questi mutamenti è che lo stesso interno della terra si sviluppa e decade, come il corpo delle piante e degli animali […] Ma l'intero processo vitale della terra accade gradualmente e in periodi di tempo cosi immensi al confronto della durata della nostra vita, che tali cambiamenti non possono essere osservati e, prima che il loro decorso possa essere documentato dall'inizio alla fine, intere nazioni periscono e sono distrutte."

L'osservazione di Aristotele secondo cui la natura circolare dei moti celesti è prova della limitatezza spaziale dell'universo è molto più profonda di quanto non possa apparire. Essa contiene infatti l'intuizione di un principio di conservazione (quello che in termini moderni chiamiamo momento angolare dell'universo) che suona di fisica molto moderna. Bisogna fare attenzione, nella discussione del pensiero aristotelico, a mantenere distinte le sue affermazioni basate su almeno un elemento osservativo, da quelle basate sulla pura speculazione. E anche fra le osservazioni, sue e dei suoi contemporanei, bisogna tenere conto delle limitate capacità sperimentali dell'epoca, ad esempio l'incapacità di misurare con sufficiente accuratezza gli intervalli di tempo (bisognerà aspettare il Settecento e Christian Huygens per un salto di qualità). Ad esempio, uno degli elementi addotti da Aristotele per provare l'eternità dell'universo era la costanza della velocità del moto delle stelle (nella sua formulazione, del moto dell'etere). Oggi sappiamo che l'universo nella sua globalità sta rallentando, e questa è una delle importanti prove a supporto della teoria del Big Bang, ma tale rallentamento non è misurabile che con strumenti ecezionalmente raffinati.
La credenza aristotelica in un universo senza inizio e senza fine lo porrebbe di diritto fra i precursori della teoria dell'universo stazionario, (ri)formulata negli anni '30 dai cosmologi inglesi Hermann Bondi e Roger Hoyle, e sconfessata alla fine degli anni '60 dalla scoperta della radiazione cosmica di fondo, presunto residuo del Big Bang. O forse meglio, della teoria dell'universo in equilibrio di Einstein, la soluzione delle equazioni relativistiche con costante cosmologica non nulla che venne messa sostanzialmente in crisi dall'evidenza dell'espansione dell'universo (Einstein dichiarò in proposito che questa fu la sua più grave svista). Questa visione, pur discutibile ma senz'altro originale e moderna, spinse però Aristotele ad una interpretazione necessariamente ciclica dei fenomeni, per garantire la condizione di stazionarietà come realtà immutabile. Mentre questo era necessario per Aristotele, da una parte per evitare i paradossi logici della scuola eleatica, e dall'altra per uniformarsi alla sua visione strettamente teleologica della natura, tale richiesta agli occhi moderni non è obbligatoria per garantire una possibile soluzione stazionaria o di equilibrio per un modello di universo basato sulla relatività generale. Per noi oggi è plausibile un universo "aperto" e un tempo senza fine, pur se in continua evoluzione e cambiamento (si potrebbe leggere ad esempio il bell'articolo divulgativo di Freeman J. Dyson "Time without end: physics and biology in an open universe", in Reviews of Modern Physics del 1979). Sebbene la differenza fondamentale fra aristotelismo e le moderne teorie dell'universo, in espansione e "inflazionario", sia la presenza di una singolarità iniziale, o Big Bang, a partire alla quale emerge il tessuto dello spazio-tempo relativistico, credo di aver ragione a sospettare che se Aristotele fosse vissuto oggi avrebbe forse apprezzato una tale possibilità, eternità nel mutamento, poiché l'assenza di un limite finale al tempo fa sì che tutte le possibilità siano in realtà compresenti fra potenza e atto, e quindi immutabili, anche se noi possiamo percepirle come in apparente, continuo mutamento.

Personalmente, gli aspetti del pensiero scientifico di Aristotele che mi lasciano più freddo sono proprio quelli che dovrebbero apparire più falsamente moderni, negli attuali tempi di magra del riduzionismo in favore di una variegata pattuglia di approcci olistici. Si, la teoria dell'organicità dell'universo, l'identificazione dualistica di microcosmo e macrocosmo, che sembrano tanto prossimi alle visioni parascientifiche di un certo ecologismo che arriva fino a Bateson & C. Ma delle conclusioni a tratti paradossali della fisica aristotelica, del non-ruolo della matematica nel suo pensiero (importanza delle assenze, a volte), e della sua visione finalistica dell'universo come organismo vivente (ci risiamo con l'Ipotesi Gaia degli ecologisti alla Ray Lovelock?) parlerò una prossima volta…

04 novembre 2006

Ritorno ad Aristotele /2. Le geometrie della mente

Questa seconda puntata del discorso su Aristotele cerca, e non so con quale successo possibile, di elaborare ulteriormente il concetto di statuto dei confini, partendo dalla teoria aristotelica dei luoghi e muovendomi fra matematica, fisica e neurofisiologia, nella direzione di costituire una base per l'analisi della percezione umana (in generale, animale) del mondo esterno, propriamente definito, e successivamente per la discussione delle attività di indagine scientifica in termini di operazioni mentali.

Aristotele non ha inventato la parola luogo, τóπος, l'ha trovata già esistente nella lingua greca con il suo senso di luogo, posto fisico. Se si esaminano gli utilizzi moderni della parola luogo, posto, ci si rende conto che essi richiedono generalmente l'associazione ad un abitante che ne faccia la sua residenza. E' raro che usiamo la parola luogo con un genitivo inanimato. Esempi. Il luogo di una roccia? Il luogo di una casa? Nella connotazione filosofica, la parola luogo porta con sé un significato esistenziale, mentre per indicare la collocazione geometrica nello spazio si impiega piuttosto la parola posto o sito e i loro costrutti derivati, come postazione, insito, situato.

Nell'ipotesi, certo tutta da discutere, che la parola luogo implichi un essere che vi soggiorni, chiamiamo questo essere il Signore del luogo, sia esso umano o animale. Ogni animale forgia un luogo per le sue attività. Ogni essere vivente è il centro di un dominio geometrico tridimensionale, il suo τóπος, dove pratica le sue attività riproduttive, di caccia, etc. Un tale dominio è un volume dotato di un baricentro, dal quale il Signore emette ramificazioni vitali e familiari. L'importante è sottolineare che un tale dominio geometrico esiste esclusivamente nella mente del suo Signore. Le incursioni, o piuttosto le escursioni esterne sono limitate da confini, oggetti fissi che ne delimitano le estremità, gli εσχατα di Aristotele, (τω δε τι κεξωρισμενον, cio che è separato) che l'individuo per sue proprie scelte vitali e culturali non vuole superare (confini che sono ovviamente variabili nel tempo). In maniera semplificata, possiamo dire che Aristotele immagina che ogni essere vivente sia dotato di questo suo territorio mentale, proiezione interiore dello spazio esterno nel quale l'essere si colloca. Quello che vorrei analizzare è come questo territorio mentale si correla al territorio fisico nel quale l'essere vivente è immerso.

Inizialmente, attribuiamo a questo essere una mobilità all'interno di questo dominio (nella matematica della topologia, si dice un insieme aperto connesso) dell'ordinario spazio euclideo. L'esigenza per un luogo di avere degli εσχατα è una proprietà locale che caratterizza l'essere, l'ουσια. Il luogo è definito dalla sua frontiera esterna. Ma quel che dovrebbe risultare soprendente è che questa proprietà locale è in realtà costituita come una doppia frontiera. In termini di geometria topologica, è un inviluppo convesso che sostituisce il luogo degli estremi. Questa è la natura stessa della nozione di bordo topologico, di frontiera.

Con Parmenide appare per la prima volta il concetto di συνεκησις , usualmente tradotto con il termine continuo (riferito alla continuità dello spazio). Traduzione parzialmente fuorviante, secondo René Thom (autore del noto saggio su Aristotele come "primo topologo della storia della matematica" che ispira queste mie riflessioni), che sottolinea come la sunékesis, ciò che fluisce insieme, evochi piuttosto il concetto di dominio continuamente connesso (cioè senza interruzioni) come il tracciare un perimetro di un oggetto senza staccare la penna dal foglio. Come farebbero dei navigatori, che possono verificare la connessione geometrica di un'isola compiendone il periplo. Nei fatti, all'epoca del tardo Platone e di Aristotele, i geometri manifestavano una certa ripugnanza all'idea che due punti fossero coincidenti, nozione per la quale non disponevano neanche di un termine adatto. Più tardi però, all'epoca di Euclide, non si esiterà davanti all'operazione concettuale di far scivolare due figure geometriche nello spazio, per portarle a coincidere e verificarne l'equivalenza, ad esempio facendo muovere idealmente una squadra su una riga (il verbo επιαρμωζειν indica in Euclide questa operazione). Thom nota che ad una lettura immediata della formula Εν ταυτωι γαρ τα εσχατα του περιεξοντος και του περιεξομενου (che per quel po' che mi ricordo di greco tradurrei all'ingrosso come sono insieme i bordi del perimetro soprastante e del perimetro soggiacente) sembra che Aristotele pensi ad una identità dei confini, laddove l'avverbio ταυτωι è usato invece nel senso di prossimità, quella che oggi chiameremmo identità interna di due insiemi.

Questo discorso ci porta ad approfondire l'idea di coincidenza di due punti, come designato nell'enigmatica affermazione aristotelica: "l'entelechia genera separazione". Consideriamo una retta infinita alle due estremità. Se poniamo un punto origine O su questa retta, l'entelechia del taglio operato con la scelta arbitraria dell'origine, genera due semi-metà per qualsiasi segmento A-B che attraversi l'origine, e per la retta stessa. I punti di incontro dei due semi-segmenti, A-X e X'-B, sono distinti, X e X', pur se coincidenti. Come nel caso delle due figure geometriche traslate fino a farne coincidere il perimetro, i confini sono coincidenti ma distinti.

Questa teoria aristotelica del luogo ha sofferto storicamente di una profonda ambiguità interpretativa, definito addirittura il locus horribilis dell'aristotelismo, considerato come un monolito desueto delle concezioni più primitive rimproverate al maestro di Stagira. Ambiguità del trattarsi di una teoria di ispirazione strettamente geometrica nel senso moderno del termine o, al contrario, di una teoria fondata sull'etologia, cioè sull'occupazione dello spazio da parte dell'essere vivente? Il secondo punto di vista sembrerebbe più pertinente alla tradizione "biologistica" di Aristotele, e ne farebbe il cardine di uno dei problemi centrali dell'etologia moderna: come fa un animale ad organizzare il proprio spazio vitale entro un certo territorio? Ad esempio, gli uccelli hanno la barriera naturale del nido, che costituisce un elemento fondamentale nell'educazione della prole, oggetto di numerosi studi etologici.
Esiste negli animali una attività di proiezione degli eschata interiori sugli eschata esteriori, i confini del territorio che riproducono la mappa dei confini dell'anima, che si determina simultaneamente, nel corso degli spostamenti del Signore del luogo nell'ambito del suo territorio. Un costruirsi continuo di spazi mentali legati al passaggio nei luoghi fisici, che vengono a coincidere pur rimanendo distinti, che è anche una mappatura esterna del proprio universo interiore. La struttura ενταυτα, coincidente, degli εσχατα esterni sugli εσχατα interni. Un doppio bordo, vuoto, che ha sempre secondo Thom una analogia nella formulazione matematica del bordo topologico per due insiemi coincidenti, d⊗d'=0, un luogo-non-luogo, una coincidenza priva di dimensione.

E' necessaria questa identificazione bidirezionale della coincidenza senza identità tra confini esterni ed interni, o è solo un nuovo artificio linguistico privo di alcuna sostanza?
Pensiamo ad un organo che atraverso la frontiera del corpo metta in contatto il mondo esterno (la rappresentazione che ne fa il cervello) e il mondo interno proiettato nelle immagini mentali, ad esempio l'occhio. La visione di un oggetto esterno va a costruire una immagine virtuale sulla retina, una forma delimitata da un confine. Questo confine si proietta all'interno della mente come un bordo reale, niente affatto virtuale: alcuni recettori della retina percepiscono il pieno, altri il vuoto, e il cervello identifica la regione di transizione tra pieno e vuoto con una sequenza di segnali di attivo/disattivo nei recettori. Questo bordo si propaga all'indietro in cascata, fino alla corteccia visiva, dove viene mappato topologicamente invariato (con distorsioni geometriche, senza dubbio, ma conservando le proprietà di connessione e le relazioni dimensionali) nei neuroni del nucleo percettivo visuale. Questa mi sembra una plausibile interpretazione moderna della descrizione aristotelica del processo percettivo, con l'unione di sensazione e forma nella generazione dell'ειδος, l'immagine impressa nell'anima, che in termini moderni è ovviamente da identificarsi con la definizione di mente che si dà in neuroscienze.
La percezione è il risultato di un processo di impressione di forme mentali ricavate dall'esterno attraverso l'interazione con i confini del corpo e, all'inverso, di proiezione dei confini mentali sugli oggetti esterni riconoscendo gli elementi del τóπος, dell'ambito vitale, del luogo.

Il rigetto aristotelico della teoria platonica delle forme, presentato nella "Etica Nicomachea", è spiegato in questa raffinata analisi del processo percettivo, cosi tanto prossima alle concezioni della neurofisiologia moderna. Secondo Aristotele, l'errore di Platone era l'assunzione che, poiché la mente può separare un oggetto e la sua forma astratta, entrambi debbano esistere separatamente (e come sappiamo, Platone arriva poi ad attribuire realtà alle sole forme astratte). Aristotele invece afferma, con grande modernità, che la mente umana è naturalmente capace di svolgere il pensiero astratto, e il fatto che una persona sia capace di astrarre nella sua immagine mentale la forma dall'oggetto che la genera, non necessariamente significa che la forma abbia una esistenza propria. La forma, in conclusione, è una pura immagine mentale, propria del processo percettivo di ogni essere, umano o animale, non intrinseca all'oggetto.

Questa analisi, per quanto solo agli inizi, ancora abbozzata e primitiva, del tutto incompleta e criticabile, e tutto quel che si vuole, fa uscire, secondo me, la teoria dei luoghi di Aristotele dal suo stato di locus horribilis philosophiae alla funzione di uno statuto dei confini.
Ovvero, la definizione della sensitività percettiva attraverso la specificazione dei confini: primo, il confine tra interno ed esterno del corpo, tra ciò che accade all'interno dell'involucro vitale e ciò che accade al suo esterno; secondo, il confine che delimita e definisce le sostanze del mondo esterno, espresso geometricamente come perimetro o superficie, e temporalmente come intervallo fra inizio e fine; terzo, il confine che rappresenta le immagini mentali delle sostanze esterne, sovrapponibile idealmente alle sostanze reali nel processo di riconoscimento formale, possibilmente coincidente con quelle, ma sempre distinto, artefice della "doppia frontiera" evanescente di dimensione nulla che caratterizza la metodologia della rappresentazione.

Si potrebbe forse obiettare che Aristotele in queste mie elucubrazioni sembra più essere usato come una scusa metodologica, che non come vero soggetto di riflessione filosofica. Forse. Ma l'avevo detto dall'inizio. E cionondimeno, lo statuto dei confini servirà a correlare l'attività di rappresentazione mentale con l'attività scientifica… ma anche linguistica, o musicale.

01 novembre 2006

Ritorno ad Aristotele /1. Lo statuto dei confini

Un po' a sorpresa anche per me stesso, ho ripreso a scrivere più di frequente in queste pagine. Sorpresa, perché da un po' mi dedico più alla fotografia che non alla scrittura, come sfogo delle mie malriposte ambizioni creative (per chi volesse dare uno sguardo, questo link dà accesso alle mie pagine su www.flickr.com).

Un po' a sorpresa anche per me stesso, riparto dal mio ultimo scritto di qualche giorno fa che parlava, in senso esteso, della paura della scienza, per cominciare una riflessione che ho in testa da molto tempo. E che forse è arrivato il momento di cominciare a tirar fuori e a mettere nero su bianco. Il momento è arrivato anche perché sono in giro discussioni stimolanti, il cui ruolo primario finisce per essere non tanto e non solo il confronto di idee, ma piuttosto la spinta a riflettere, rivedere e ricercare le idee stesse.

So già che sarà un lavoro lungo, perché cercherò di riassumere e dare una forma compiuta a quello che bolle da tempo nella scatola vuota che ho al posto della testa, e non è detto che il progetto mi riesca e che, qualora riesca almeno in parte, abbia come risultato qualcosa di coerente e completo. Per questo, e anche per ovviare alla consueta densità plutonica del mio modo di scrivere, sull'esempio delle stimolanti discussioni di cui sopra proverò a elaborare un discorso a puntate. E, me ne dispiace ancor prima di iniziare, ma so già che non saprò essere avvincente mitopoieta come l'autrice dell'esempio che mi precede e mi ispira. Il mio sarà discorso molto di logos e poco di mythos. Non credo che poeti e cantori si fermeranno a lasciare il loro contributo :)) , anche perché ho come musica di sottofondo l'Arte della Fuga di Bach e dubito che il buon Giovan Sebastiano potrebbe tornare dall'aldilà solo per commentare il mio blog. Quindi spero di poter essere, se non avvincente, almeno convincente.

Il bersaglio è la paura della scienza, che nasconde e simboleggia tutte le paure degli uomini antichi e moderni (per questi ultimi con numerose aggravanti e testi a carico). La scusa è il vecchio Aristotele, per usare come metafora del discorso e, allo stesso tempo, come prassi operativa la polemica contro il platonismo. Vedendo in quest'ultimo una corrente, sotterranea o superficiale a seconda dei momenti storici e culturali, che periodicamente viene a suggerire soluzioni ultraterrene, iperuranee ed extracorporee, leggasi incorporee, per le angustie secolari e le ubbie quotidiane dell'essere umani.

Mi sento spinto a questo percorso per diversi motivi, professionali, culturali, individuali e perfino sentimentali, essendo come sempre questi ultimi, se non i più importanti, almeno quelli più cogenti. Ma la paura della scienza nel senso di attività conoscitiva (che è tale presso quella frazione di popolo suo malgrado poco o mal educato) è talmente biblicamente radicata, da forzare anche le menti di filosofi affermati verso operazioni negazioniste e di controinformazione confrontabili da una parte al revisionismo storico, e dall'altra alla propaganda politica. Sono sicuro che in molti, a questo punto, si sia venuta evocando come esempio la contrapposizione tutta artificiosa fra darwinismo e creazionismo. Ma io penso a casi ancora più lampanti, anche se meno noti, come la polemica avviata da Koyré e sostenuta da Feyerabend, contro gli esperimenti di Galileo. In brevissima sintesi, la scelta antiempirista di questi filosofi della scienza è arrivata fino alla forzatura di voler presentare un Galileo fortemente influenzato dall'idealismo platonico (nelle parole di Koyré, un platonismo «profondo e consapevole, che non avevano riconosciuto coloro che in precedenza avevano parlato di un Galileo platonico»). Perché la vulgata vuole che le nuova scienza fosse inconciliabile con l'aristotelismo, e dunque Galileo avrebbe contrapposto al mondo delle sostanze e degli accidenti di Aristotele l'universo matematico di Platone. Questa trasformazione di Galileo da empirista in idealista è arrivata fino a negare che Galileo abbia mai davvero compiuto gli esperimenti raccontati nelle sue opere. P. K. Feyerabend ha finito per presentare Galileo come uno scienziato privo di scrupoli, che non esitò a impiegare in senso filocopernicano dei dati osservativi discutibili, occultando con abili manovre gli aspetti deboli della teoria.

Per puro dovere di cronaca gioverà ricordare che, dopo queste critiche motivate da un evidente progetto "politico", scienziati un po' in tutto il mondo hanno provato a riprodurre gli esperimenti e addirittura a ricostruire gli strumenti galileiani, dimostrando la perfetta plausibilità storiografica degli esperimenti e dei risultati. Quello che rimarrebbe in discussione sarebbe quindi l'atteggiamento intellettuale di Galileo, ovvero se nella sua opera l'esperienza abbia davvero avuto il ruolo prioritario, o se piuttosto non vi prevalga l'aspetto matematico rispetto a quello empirico, essendo l'esperimento svolto come verifica di ipotesi elaborate con argomentazioni teoriche. E' questa una polemica di lungo periodo e di non poco momento nel dibattito epistemologico, ma non fondamentale per quello di cui vorrei parlare. Perché nelle parole scritte - che qualcosa conteranno infine - Galileo non ha mai smesso di sottolineare come proprio Aristotele, se fosse stato in vita, sarebbe venuto in suo aiuto per difendere le nuove scoperte dell'astronomia del Seicento (vedasi l'edizione del "Cielo" di Aristotele curata da Alberto Jori).



La polemica fra priorità della teoria o del'esperienza va al cuore stesso della scienza, e ancora più a fondo va al cuore, o alla mente, del rapporto fra uomo e cosmo. Per questo nel mio discorso comincio proprio dai limiti della percezione umana, e per questo mi serve anzitutto di stabilire lo statuto dei confini.

Anzitutto, il mio punto di vista è antropocentrico, e non potrebbe essere diversamente. Non nel senso classico e tendenzialmente negativo che si è venuti a dare a questo termine, ma in un senso che, al contrario, convoglia tutta la limitatezza della natura animale dell'essere umano. Mi spiego.
Noi abbiamo esperienza del mondo solo ed esclusivamente attraverso la frontiera esterna del nostro corpo, il nostro confine. La frontiera del nostro corpo è costantemente in interazione con l'universo, il cui insieme nella sua porzione a noi accessibile per comodità definisco realtà (scavalcando, per il momento, qualsiasi discussione sulla realtà della realtà). Noi homo sapiens percepiamo variazioni di temperatura e pressione attraverso la pelle, radiazione luminosa attraverso la cornea, riconosciamo molecole di vario tipo attraverso le mucose nasali e labiali, trasformiamo pressioni dell'aria in suoni attraverso la membrana timpanica, i nostri cicli vitali sono basati sull'alternarsi del giorno e della notte terrestri, ritmo da cui derivano i soli intervalli temporali che siamo in grado di capire e maneggiare. Questo insieme di intervalli di sensibilità (in cui un competente di neuroanatomia riconoscerebbe facilmente il range dinamico dei neuroni di ciascun nucleo del sistema nervoso centrale) è il nostro dominio di interazione con la realtà, al di là di questo non possiamo andare. Anche i più grandi e raffinati strumenti di misura e di osservazione dell'era moderna, capaci di scandagliare distanze interstellari, o distanze subatomiche, e di addentrarsi su tempi decine di ordini di grandezza più brevi o più lunghi della nostra giornata, necessitano alla fine di una traduzione che li renda manipolabili e leggibili da mani, occhi e orecchie umane.

Quindi, la nostra percezione della realtà è antropocentrica. Qual'è il allora senso di una domanda tipo "che cos'è la realtà?" Abbiamo, cioè, alcuna possibilità di farci un'idea su quello che eventualmente esiste all'esterno della frontiera del nostro corpo? La risposta passa attraverso lo sviluppo della cultura, cioè attraverso il logos, cioè attraverso Aristotele di Stagira.